domenica 13 aprile 2008

Silla Hiks - Frontiera

















È solo una provinciale, ma nel buio incendiato dai fari è infinita come qualsiasi autostrada, un nastro di asfalto che può andare da qualsiasi parte senza finire mai.

E ogni volta - malgrado te, malgrado i nostri casini, malgrado la sveglia alle 4 e la stanchezza e il freddo della notte che c’è ancora - è questo che penso, che potremmo andare avanti per sempre, io e la mia motrice Mercedes che è tutti i miei averi, prima che finisca il mondo.

Sono un camionista, non potrei essere niente altro: anche tu, che mi ripeti sempre di rimettermi a studiare e di infilarmi una giacca e di cercarmi un lavoro ‘buono’ sai che non è possibile, lo sai anche mentre me lo dici. Perché io ho bisogno della strada, dell’illusione di lasciarmi alle spalle tutto e insieme dell’emozione di tornare qui da te e da questa terra che mi è stata imposta prima e che è diventata la mia casa poi. anche se è vero che se ci rimango è solo perché ci sei, e che senza te non sarei qui né da nessuna parte, nemmeno nella mia Germania: sei solo tu il mio respiro.

Mentre guido questi sei chilometri ti penso così forte che nel sonno ne sentirai il rumore. Tiro giù il finestrino e mi accendo una West e ascolto il silenzio della notte per quietare il boato dell’amore che provo, e che dopo tanti anni rischia ancora di travolgermi.

Non ci sono stelle, stanotte, e non c’è nessuna luna: soltanto qualche nuvola appena più chiara sopra il fondale nero. E, sul ciglio della strada, a qualche centinaio di metri, appena oltre la fine della carreggiata asfaltata ci sono loro, cinque ragazzi che camminano uno dietro all’altro, qualche vestito asciutto addosso e i sogni accartocciati dentro alla busta di plastica che ciascuno porta nella mano, con le facce antiche tagliate con l’accetta e i capelli tosati e poi lasciati crescere sulla fronte e lungo il collo, come li avevo anch’io quando avevo quindici anni, e all’Istituto d’Arte in cui aspettavo la qualifica e l’età della patente mi chiamavano il Vikingo.

Li guardo bene, e torno indietro all’87 da cui loro sembrano usciti proprio adesso, con quasi vent’anni di ritardo: uno ha persino lo stesso giubbetto di jeans con la fodera di finto agnellino bianco, quello che mia madre mi comprò dopo mesi di strenue trattative e che nessun adolescente di oggi metterebbe neanche se minacciassero di spararlo. Ma loro vengono da un mondo che è rimasto indietro, e per recuperare il tempo camminano spediti: ogni tanto si voltano a guardarsi indietro ma senza fermarsi, strappando veloci un filo d’erba che poi sfilettano con le dita con un indolenza assorta che sa di vaticinio.

Non sono i primi che incontro, da quando abitiamo al mare anche d’inverno ci sono quasi in ogni notte senza luna. Centinaia, migliaia come questo qui, che alza la testa verso i miei occhi e ha uno sguardo del mio stesso azzurro, e che è piccolo e magro e nodoso, e a vent’anni se pure, sembra già millenario. Lo vedo, nel retrovisore, coi pugni inghiottiti dalle maniche del golf a stringere il filo del suo cuore gonfiato dalla paura e dalle speranze, un palloncino che sta per volargli via.

Lecce è qua, oltre il ponte, dietro alla sagoma dello stadio e alla fine dello stradone tra cui qualche ora comincerà il mercato del venerdì, anche se lui non ci andrà , non ha certamente più soldi, dopo che si è venduto tutto per comprarsi il biglietto della lotteria che l’ha portato qui. E non credo nemmeno che comunque lo sappia, né del mercato né della città che è vicina, nel retrovisore è sparito mentre imbocco la rampa, non so neanch’io perché ci penso ancora. E perché senza che possa ascoltarmi, nel mio tedesco, gli parlo, glielo dico, che anche se ci è arrivato caracollando furtivo come qualsiasi cane randagio e ha solo una busta di plastica come dote non è detto che non ci sia niente ad aspettarlo, qui, che debba per forza finire come succede quasi sempre, con lui rispedito indietro entro stasera o inghiottito da un ventre ingordo che gli prenderà l’anima abbagliandolo col miraggio dell’opulenza strillata dalla pubblicità.

E nella mia lingua che lui non può comprendere, mi accorgo di raccontargli questa città che è sempre stata, consapevolmente o no, una frontiera, con le sue volte a stella e la sua pietra lavorata come pizzo che nelle chiese si apre in rosoni per frantumare i raggi del sole.

Di raccontargli tutto quello che mi ha dato, da quando mi hanno sradicato e ripiantato in lei, e di quanto in questi anni ho visto la sua faccia cambiare, rimanendo sempre, sotto il trucco a volte troppo pesante, se stessa. Una frontiera non solo per le genti, ma per il tempo e i luoghi, che vive bifronte tra passato e futuro, con un piede nella terra rossa e uno sul marmo lucido della sua galleria col tetto di vetro. Una città in cui le ragazze che servono ai tavolini all’aperto nelle sere d’estate ti portano insieme alla birra qualche pittula in un piattino di creta. E al centro dei rondò all’imbocco della superstrada che la collega al resto del mondo ci sono ulivi di almeno cento anni , strappati già vecchi dalle campagne intorno,e riattecchiti lì ancora più forti, qualsiasi passato non è facile da cancellare.

Compro le sigarette al distributore automatico mentre aspetto che il mio compagno arrivi per andare a caricare, e ancora parlo col ragazzo che forse è già arrivato e forse no, che forse è già stato preso, e forse è ancora qui, a respirare quest’alba, mentre l’albergo di fronte a me è un colosso a facciata continua dietro al quale posso solo indovinare l’ex convento e il suo chiostro, ma la luce nel terminal dell’aeroporto aperto per i check in dei voli delle sei è molto più fioca delle fotoelettriche ai piedi dei bastioni delle mura che c’erano prima delle tangenziali e della metropoli, e ci saranno dopo, qualsiasi sia il futuro.

E mentre mi accendo un’altra sigaretta e l’odore dei pasticciotti caldi esce dal bar Commercio già aperto, io, che sono un tedesco, uno straniero, come lui, glielo racconto, al ragazzo che cammina e che non può sentirmi e che chissà dov’è, adesso, gli racconto quest’odore, e finalmente glielo dico, è la mia città, questa, glielo dico in dialetto, ieu suntu te qquai, e ho una disperata voglia di chiamarti, anche se so che ti sveglierei, perché solo tu al mondo sai che cosa voglio dire.

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