mercoledì 23 aprile 2008

Antonella Gravante. Giravolte

Non aveva mai permesso che il solleone fiaccasse la carica di vorace curiosità per una città che pareva reggersi su blocchi di megalitici marzapani, dall’odore e dal colore di grano macinato di fresco: quelle forme e quegli spazi portavano nutrimento al suo cuore affamato di preadolescente, costretto altrimenti in limiti assai angusti, ogni volta che si spingeva per labirintiche esplorazioni.

In estate, quando la canicola lasciava deserta ogni via del piccolo centro e dominava il silenzio, come altro ingrediente necessario alla percezione di proustiano sapore, in alcune stradine strette e tortuose, le giravolte, si procurava il vero alimento che tanto desiderava. Erano un reticolo di viuzze, simili a calli o carruggi, in cui ci si disorientava perché, a volte, vicoli chiusi o corti di vetusti palazzi sbarravano il passo, ma quasi mai ci si perdeva, anzi quasi sempre, un percorso, cominciato senza prestabilire la meta seguendo l’andirivieni di arabeschi meandri, poteva concludersi al punto di partenza. Proprio come nella vita, a volte, l’iniziale disorientamento di una scelta casuale ci regala sorprese altrimenti negate. L’unico sollievo alla calura di fine luglio era un lieve spostamento d’aria che la sua bici verdazzurro alimentava, fendendola come coda di sirena e il divertimento iniziava quando, in piedi sui pedali, allungava la braccia e si tendeva veloce nell’afa.A quell’ora alcune persiane chiuse emanavano sentori di legno appena tagliato e qualche truciolo sulla soglia confermava la bottega di un falegname; pochi metri più avanti in uno slargo triangolare un forte profumo di vino annunciava un’osteria dove pochi avventori, già alticci, lanciavano risate troppo allegre inebriati dagli odori di polpette fritte e sugo alla cipolla; appena svoltato l’angolo una tenda per il sole a righe appena riusciva a stemperare la fragranza di succulenti frutti rossi, di peperoni maturi e di verdure inutilmente bagnate, di agli e origano, esalata dalle larghe maglie quadrate della saracinesca abbassata contro la calura. Ma, appena pochi metri più in là, l’aroma del caffè copriva tutto e sull’ingresso di un piccolo bar alcuni tavolini tondi ospitavano clienti intenti a portare alla bocca bicchieri con ghiaccio e latte di mandorla o sorbetti di limone grattugiato ancora un po’ acerbo. Procedendo per una piazzetta rapida frenata di fronte ad un portale bugnato: portone semiaperto, atrio quadrato con lampione di ferro battuto e scalinate ai lati; gincana davanti ai piccoli portoni scrostati dal tempo separati dalla strada da due o tre gradini, e protetti da basse ringhiere in ghisa nere, dalle finestre tendine di lino bianche lasciavano intravedere rossi salotti di velluto con frange dorate o alti comò i cui specchi maculati riflettevano foto ingiallite e copriletto di pizzo, eredità di bisnonne; seminterrati, alcuni finestroni delle cantine emanavano un fresco tanfo di muffe polverose che si mischiava all’effluvio del pitosforo e del gelsomino, così intenso che alti muri di antichi giardini non riuscivano a contenere, ma non tanto da coprire quello di incenso dei pini.L’energia del sole veniva smorzata da grappoli di nuvole e l’aria carica di elettricità provocava un senso di ansia non definibile:lo zigzagare allentava un po’ la soffocante cappa di umidità che aveva zittito le pettegole cicale; svolta d’improvviso e in un angolino d’ombra un cane giallino come le pareti, fiutava l’aria: il passaggio della bicicletta non distraeva l’animale dal compito di annusare le nuvole cariche d’acqua sulle loro teste. La pioggia cominciava a scendere fragorosa sulle pietre arroventate che, evaporando il calore assorbito, impregnavano di un afrore salmastro il porticato dove si era addentrata; dai muri scrostati di una scalinata una lucertola guadagnava fulminea la via sotto un geranio rosso. Il lastricato irregolare era ricoperto di pozzanghere, rese melmose dalla pietra dilavata delle pareti gia corrose; il temporale sfarinava i blocchi tufacei, infiltrandosi nelle intercapedini e ne imbibiva la malta scura; dalla roccia, diventata giallo-ocra, affioravano le concrezioni di piccoli fossili di conchiglie, memoria delle viscere di una terra un tempo ricoperta dal mare. Aspirava la frescura e si lasciava avvolgere dal colore: lo stordimento regalava il ricordo di cose mai vissute…

fonte iconografica www.centrointernazionaleartefotografica.org
foto di giuseppe lipori

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