venerdì 18 aprile 2008

Claudio Campagnuolo e il fantasma di Castel Sant'Elmo

Io sono Massimiliano Sorrentino, napoletano, trenta anni.
Di solito quando si pensa alla mia città viene alla mente il Vesuvio che si specchia nel golfo, si ricorda la pizza e le melodie suonate dai mandolini. Più spesso, quando di Napoli ne parlano i giornali, si fa riferimento a cose negative, i morti della guerra di camorra, gli episodi di mala sanità o di abusi edilizi, e frequentemente anche ai falsi in concorrenza con le copie delle griffe fatte dai cinesi. Per chi però vive questa realtà quotidianamente la città è fatta da tutte queste cose messe insieme e molto altro ancora.
Esiste però un luogo dal quale tutto appare distante e quasi incantato, un posto dove gli stereotipi e lo squallore si fondono in un tutto unico e la mia Napoli acquisisce un fascino indiscusso. Questo posto è la grande terrazza di Castel Sant’Elmo. Il maniero a forma di stella irregolare è abbarbicato in cima alla collina del Vomero e i suoi spalti rappresentano un punto di osservazione preferenziale.
Amo davvero molto salire fino agli spalti del castello, col vento che anche in estate soffia veloce tutt’intorno. Quando il cielo è particolarmente pulito e terso in lontananza si vedono Capri e, dalla parte opposta, Procida che si stendono nel mare come lembi di terra promessa. Osservando invece verso il basso si vede quasi tutta la città stesa ai tuoi piedi, con la lunga via di spaccanapoli che nera arteria taglia in due il centro storico.
Mi piace così tanto quel posto che ci vado ogni volta che ne ho la possibilità, quando sono triste e voglio restare solo coi miei pensieri, quando voglio godere di una vista incantata per ricordare quello che c’è di bello nella vita, quando vago senza una meta in cerca di un rifugio.
La mia avventura è cominciata proprio sugli spalti di Castel Sant’Elmo. Era un assolato pomeriggio di luglio, al tramonto, e il sole scendeva rapido in mare come un pulsante disco di fiamma che si discioglie nell’azzurro. Era tardi e dovevo andare via ma lo spettacolo era così incantevole che decisi di scendere all’uscita non usando l’ascensore ma passando per i camminamenti di ronda, un percorso poco noto ma di grande suggestione. Si fa il giro attorno al maniero potendo godere ancora dell’atmosfera senza tempo che vi si respira.
Ero completamente solo e a farmi compagnia c’erano solo il fischio del vento e il canto di uccelli lontani. Dopo una svolta però mi trovai di fronte a qualcosa di inatteso. Ormai il sole era completamente scomparso e le ombre si allungavano rapidamente conferendo un aspetto vagamente sinistro al lungo tunnel. In fondo proprio a ridosso del possente muro. C’era un energumeno biondo che piagnucolava.
«Io nun so stat’! Io nun sapev’ nient’!». Ripeteva con voce profonda e sepolcrale come di prete vecchio.
Il suo abbigliamento era insolito e lacero: una camicia bianca sporca di sangue e brache nere e consunte. Quando l’uomo mi vide mi rivolse uno sguardo di fuoco poi si voltò e sparì nel muro.
Io ero sconcertato, volevo credere che fosse solo uno stupido scherzo ma non c’era nessuno attorno a me che ridesse. Cercai di non perdermi d’animo, mi feci il segno della croce e a passo veloce mi allontanai dal castello. Finalmente mi ritrovai nel chiasso e nel via vai dal sabato sera e le voci della gente intorno a me, le luci ammiccanti dei negozi e dei ristoranti mi diedero conforto. Lentamente i miei timori si dileguarono e mi convinsi di aver avuto semplicemente un’allucinazione.
Quella notte però dormii male, strani incubi rendevano inquieto il mio riposo e la mattina mi sentivo più stanco di quando mi ero coricato.
Così la mattina dopo decisi di scoprire qualcosa e mi rivolsi a quella che nel quartiere era considerata la massima autorità in fatto di antiche credenze napoletane: il professor Egidio Esposito, insegnante di storia e filosofia in pensione. L’anziano docente viveva nel palazzo di fronte al mio, al terzo piano. Tutti lo conoscevamo e lui ricordava tutti noi. Molti, tra cui io stesso, eravamo suoi ex allievi poiché aveva insegnato per più di vent’anni nel liceo del quartiere.
«Mi scusi per l’ora professore, ma ho bisogno del suo aiuto!». Dissi quando infine bussai alla sua porta.
«Niente, niente, Massimilià, non ti scusare». Rispose lui invitandomi ad entrare. Anche in casa il professor Esposito era perfettamente vestito, completo scuro con cravatta intonata. Dietro gli spessi occhiali in finta tartaruga gli occhi di settantenne brillavano ancora fieri e severi. Nonostante l’età infatti il professore era perfettamente lucido e sempre pronto ad andare incontro a tutti con i saggi consigli e un discorsetto da nonno.
Dopo il consueto, immancabile rito del caffè servito, nell’antiquato salotto, con infinita grazia dalla moglie del professore, la dolce signora Amalia, ci spostammo nello studio per affrontare il motivo che mi aveva condotto sin lì. Lo studio, una camera in piena luce, era arredato con mobili antichi, eredità del nonno di Esposito che era stato segretario di un famoso e ricco notaio, tutto attorno sulle pareti e in ogni angolo disponibile una confusa massa di libri pareva sostenere da sola il soffitto.
Quando ebbi raccontato la mia storia il professor Esposito proruppe in esclamazioni di sincera meraviglia.
«Figlio mio e tu sei stato davvero fortunato! Un PRI-VI-LEG-GIA-TO!». Affermò il professore. A quelle parole fui io a sbarrare gli occhi per lo stupore.
«Lei dice?». Chiesi tra l’incredulo e il sarcastico.
«E si! Tu hai avuto il rarissimo onore di vedere il fantasma di Castel Sant’Elmo. Quello è uno spirito che si manifesta così di rado che molti quasi non credono che esiste per davvero». A quest’ultima frase del professore non potei trattenermi dal sorridere: mi pareva così strano affermare dare per certo l’esistenza dei fantasmi. Poi però ricordai il terrore che mi aveva colto inaspettato quando il gigante biondo simile a un vichingo era scomparso nelle spesse pareti del vecchio maniero.
«Devi sapere, figlio mio, che questo spettro ha una storia tragica e inconsueta alle sua spalle». Spiegò il professore. «Il fatto era avvenuto ai tempi di Francesco I di Borbone, sovrano reazionario e poco incline alla costituzione. Sotto il suo governo fiorirono nel Regno delle due Sicilie un gran numero di sette segrete dai nomi insoliti, Filadelfi, Edennisti e Pellegrini Bianchi, con scopi più o meno libertari e rivoluzionari.
Proprio gli Edennisti, che proclamavano l’insorgere di un nuovo stato futuro, basato sulla fratellanza e sull’amore, stavano organizzando una rivolta cittadina per cercare di destituire il sovrano o quanto meno di convincerlo a concedere l’agognata costituzione.
Tra le loro fila militava un giovane, chiamato da tutti o’ tedesco per i suoi capelli biondi e gli occhi azzurri. In realtà il giovane era figlio illegittimo di un capitano austriaco e una servetta troppo ingenua, ma per il fantasioso popolino partenopeo non c’era troppa distinzione tra Germania e impero Austro-Ungarico. Il ragazzo, nonostante l’aspetto di gigante era innocuo e a quel che si raccontava ingenuo come un fanciullo sebbene all’epoca dei fatti avesse più di venti anni.
Sfortuna volle che la rivolta venisse scoperta dalle guardie del re ancor prima di esplodere e i capi rivoluzionari catturati e imprigionati. Qualcuno aveva tradito i congiurati svelando al governo regio quello che sarebbe dovuto accadere, forse dietro compenso in oro sonante. Serviva però un capro espiatorio e qualcuno pensò bene, con una ironia perversa, di far ricadere la colpa del tradimento sul povero gigante biondo.
La folla si accanì su di lui spingendolo all’antico maniero perché venisse arrestato come quelli che si diceva avesse tradito. Così il giovane correva avanti incalzato dalla folla inferocita. Scappando si ritrovò sugli spalti del castello e da lì, gridando al vento la sua innocenza, cadde nel vuoto morendo sul colpo. Non si seppe mai se una mano ignota lo avesse spinto.
Da quel fatidico giorno l’anima del tedesco si aggira sugli spalti in cerca di qualcuno che possa crederlo innocente. Quello era il senso delle parole che hai sentito. Poiché però anche in vita era stato molto timido le manifestazioni sono scarse e poco documentate». Si concluse con queste parole il racconto del professore.
Adesso avevo le idee più chiare e provai una gran pietà per quella povera anima inquieta. Lo stesso giorno mi recai nuovamente a Sant’Elmo, nello stesso punto in cui avevo incontrato lo spettro. Avevo con me un piccolo cero bianco. Lo accesi e feci colare in un angolo poche gocce di cera fusa per fissare la candela votiva al pavimento. Poi mi inginocchiai e pregai per lui.
Non so se lo spirito del giovane assassinato abbia avuto un poco di pace dal mio gesto ma certo imparai da quella storia ad avere più rispetto per tradizioni antiche che spesso avevo sottovalutato. E poi da allora ogni volta che salgo sui tetti antichi del castello ne scopro un nuovo, misterioso e inquietante fascino crepuscolare.


fonte iconografica www.paranormale.com

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