mercoledì 30 aprile 2008

Un cielo senza repliche di Vittorino Curci (Lietocolle)

"Un male del principio. Un guasto. All'altezza del brivido che ripete se stesso.

Oggi confuso e distante. Domani sangue vivo.

E' tutto quello che so.

Con i piedi nella melma e i calzini bagnati, le domeniche non passano."

Un cielo senza repliche, è quello che scorre dagli occhi al lento e veloce snodarsi dei giorni. Un cielo sempre uguale nella memoria, sempre dissimile dal vero oltre la lente delle emozioni. L'orizzonte non ammette ripetizioni sui suoi straordinari tramonti, e sulle sue indicibili albe, così come la vita non ammette possibilità infinite e ripetitive. Alla finestra della psychè esiste e sussiste l'unicità dell'attimo, che si perde mentre la lingua battendo sul dente pronuncia "vita". A volte spalancando le braccia al mondo, poi questo ci attraversa e noi non siamo più noi, ma un mezzo con il quale raccontare la nostra verità, che è la verità dell'universale, quella cui lo spirito anela.

C'è una brezza leggera tra queste parole, parole di cera, parole di sabbia, parole di marmo, parole di albero, parole di uomo, parole nude e parole vestite. Le parole di Vittorino Curci. Nel loro modus elegantemente sobrio hanno dalla loro una forza particolare, che con estrema dolcezza ti scorre addosso e si spinge oltre, ed il lettore pian piano è come accolto in un contesto reale e concreto che ha il sapore pieno della dimensiona narrativa. E' la goccia che cava la pietra per giungere alla radice, e al senso delle cose sotterranee. C'è l'ombra e l'essenza di un Sud tra le righe, odi voci e volti farsi strada, i "compagni" della domenica e le lotte intestine e non col quotidiano, la contraddizione delle certezze, l'eco dei sentimenti, e i colori chiari e i colori scuri. Lo stile è un nonstile, ovvero libertà espositiva che scardina la fredda gabbia del rigor metrico, in virtù di un accalorato flusso di pensieri, spontanei, spigolosi, spina e rosa di una perenne evoluzione. La sensazione di un viaggio rimane addosso, un retrogusto di cose che passano veloci, nelle quali noi eterni esseri erranti in lotta col tempo ci contiamo le dita coscienti che tutto sfinirà nella linea dell'orizzonte, e dunque ci nutriamo la bocca, lo sguardo, le carni e l'animo di tutta l'intensità che possiamo. Non c'è luce accecante che abbaglia in questo "versificare", piuttosto un controluce, ed una lampada notturna che disegna e sottrae situazioni come ombre cinesi su un muro candido.

C'è una personalità poetica evidente e ricca di sfumature in "Un cielo senza repliche" di Vittorino Curci: è un regalare al lettore il carisma e l'oscillazione dell'osservatore attento, che con le sue variazioni in versi crea sonate che danzano nell'etere come le delicate note di Einaudi. E d'obbligo restare in silenzio dunque per non alterarne l'alchimia preziosa oltre lo spazio, dove alla fine il luogo raccontato è tutti i luoghi, e l'aria che inonda i polmoni dell'autore, diventa la stessa che noi tutti respiriamo. Noi siamo là, ed il resto è un'inutile cornice, la perfezione è nel nocciolo delle cose.


"(...) Ma per come li ricordo

quelli erano ciliegi

e lì il mondo non finiva."


di Irene Leo

Un cielo senza repliche
LietoColle - Collana Aretusa
ISBN 978-88-7848-376-7 € 10,00

lunedì 28 aprile 2008

Annamaria Ferramosca intervistata da Stefano Donno

D. 1 - Nella tua ultima raccolta Curve di livello (Marsilio), persiste un senso della prosa poetica costantemente in bilico tra ricerca di Realtà e desiderio di costruire un equilibrio globale sul piano della Memoria. Le “Curve di livello” aprono a mio avviso un nuovo Tempo Poetico. Quale parte di te, del tuo sentire, rientra nel ritmo dei versi di questa raccolta?

D. 2 - Le tre sezioni del libro costruiscono una singolare geografia del Destino. Ma in fondo a mio avviso è il Silenzio a farla da padrone nel tuo libro. Sei abituata a costruirlo il Silenzio, ad addomesticarlo, o è per te una lotta impari?

D. 3 - Quale direzione sta prendendo oggi, secondo te, in Italia la Poesia. Si vende poco, se ne parla sui giornali sempre meno, eppure resiste. Ma basta?

R. 1 - In poesia la parte “cosciente”di chi scrive passa quasi sempre in seconda linea , nel senso che non vi è quasi mai, almeno per me, intenzionalità nella scrittura. Così solo dopo, dopo aver scritto un cospicuo numero di testi, scopro che il pensiero si era mosso su un territorio contiguo, quasi oscillando su temi che via via appaiono avere vicinanza e necessità . E accade quando, a raccolta ultimata, mi metto carponi sul pavimento cosparso dei fogli per trovare il filo che mi suggerirà l’ordine e il raggruppamento dei testi in sezioni, si illumina tutto il percorso.(E’ il metodo suggeritomi dalla scrittrice Tess Gallagher, e funziona sempre!) Questo libro ha così rivelato che il tempo della mia scrittura era, e forse ancora continua ad essere, il tempo dell’incontro planetario, da ricercare ad ogni livello. Se vuoi, in quello che tu chiami nuovo Tempo Poetico puoi vedere la presenza, oggi imprescindibile, dello scambio multietnico, che sento apportatore di grande ricchezza, e della necessità di ripensare un nuovo modo per sopravvivere insieme. Ascoltando anche il richiamo del passato, i suoni benevoli provenienti da quella dimensione arcaica in cui eravamo uniti, sia pure in tribù, ma solidali e proiettati a costruire insieme, mai come individuo. Certamente in questa scrittura vi è anche una parte della mia consapevolezza, delle mie convinzioni, che in poesia si trasfigurano. La poesia cerca di essere mitopoietica, inconsapevolmente.

R. 2 - Mi piace che tu abbia parlato di silenzio, del silenzio che hai sentito risuonare tra le pagine di questo libro. Silenzio che paradossalmente nella lettura orale dei testi passa con più evidenza. In quest’epoca invasa dal frastuono massmediatico abbiamo un bisogno spasmodico di silenzio, dobbiamo coltivarlo; non si tratta dell’assenza di suoni, il silenzio di cui parliamo non è vuoto, ma densissimo delle eco dalla nostra storia quotidiana, dai piccoli eventi che lasciamo allontanarsi senza fermarci a sentirne le vibrazioni, sia felici sia dolenti. Abbiamo bisogno di silenzio-pausa di elaborazione, anche di contemplazione- senza scomodare lo zen- per assaporare il senso della vita che sfugge. Personalmente mi concedo molte pause di ascolto, soprattutto notturne. E’ una mia dimensione necessaria, dove inoltrarsi apre a volte sorprendenti visioni . Non è una lotta, è lasciarsi andare, semplicemente, a connessioni spontanee.

R. 3 - Contrariamente a quanto si pensa, la poesia oggi sta esplodendo, e non solo in Italia. Si scrive moltissimo dovunque, con notevole freschezza in America Latina, dovunque si esplora con felicità questa modalità libera di scrittura, indipendentemente dal desiderio di notorietà, almeno per molti, soprattutto giovani, malgrado la scuola (sono autodidatti i giovani, a questo proposito, e ti assicuro che molti scrivono cose memorabili, di enorme incisività). Scrivono in tantissimi, me lo confidano in molti, nel mio condominio sono già in tre, nello studio medico che frequento per lavoro anche il direttore medico scrive aforismi, in rete vi è un pullulare smisurato di aspiranti poeti, come si fa a dire che la poesia muore? E questo accade non solo per il maggiore livello di alfabetizzazione, ma perché va sempre più consolidandosi la convinzione che frequentare poesia - chi legge poesia dopo un po’ inevitabilmente finisce per scrivere - è percorrere il solo territorio dove l’invasione omologante, il sistema economicista/consumista/tecnologico non può arrivare, dove la ricerca della bellezza rimarrà sempre il mezzo per salvare dalla barbarie. I reading poetici, come quello che si sta tenendo a Roma al Teatro Argentina sono super affollati, si legge poesia sempre più, nei festival, nei bar etc., anche se si vende poco, è vero. Forse perché il libro di poesia costa troppo. E si pubblica anche molto ciarpame. E non si invitano i poeti a leggere nelle scuole, dove la conoscenza della poesia è ancora legata a moduli stantii, dove non si parla mai di poesia contemporanea e straniera.
Perché allora non invitare tutte le case editrici a pubblicare magari insieme, magari solo un solo libro l’anno, in formato piccolo, con molte voci, a costo minimo? Un’iniziativa-fiore all’occhiello da pubblicizzare in rete a costo zero, da inviare gratis alle scuole. Magari – è il mio sogno – selezionando testi in anonimo, quindi senza nessuna autoreferenzialità e spinte personalistiche-editoriali che alla lunga non reggono. Sarebbe il modo perché si affermi solo la poesia valida, quella veramente capace di lasciare traccia e che vien voglia di imparare a memoria…
Come succedeva per i poemi multipli omerici: è rimasto il canto, non si sa nulla – e menomale – degli autori. Vale la pena lanciare l’idea, copiatela pure, dappertutto!






ANNAMARIA FERRAMOSCA , di origine salentina, vive dal 1970 a Roma. Suoi testi e interventi critici sono apparsi su varie riviste letterarie e siti web come La Mosca di Milano, Hebenon, Eupolis, Hebenon, La Clessidra, vicoacitillo.it, literary.it, poiein.it.
Ha pubblicato in poesia: IL VERSANTE VERO, Fermenti, Roma, 1999, Premio Opera Prima A.Contini Bonacossi ; PORTE DI TERRA DORMO, plaquette, Dialogolibri, 2001; PORTE /DOORS, pref.ne di Paolo Ruffilli, Edizioni del Leone, 2002 con traduzione inglese, Premio Internazionale Forum 2002 ; PASO DOBLE, Empiria, 2006, coautrice Anamaría Crowe Serrano, raccolta di “dual poems”, in strofe alterne in italiano e inglese, traduzione di Riccardo Duranti; CURVE DI LIVELLO, Marsilio, 2006, finalista al Premio Pascoli, Premio Città di Castrovillari- Pollino, Premio Violetta di Soragna, Premio Astrolabio 2007. Interventi critici sulla sua scrittura sono apparsi in rete e su varie riviste e antologie tra cui: Poesia, Poiesis, Translation Ireland, Gradiva, vicoacitillo.it, sinestesie.it , geraldengland.uk ; La parola convocata,1998; L’altro Novecento,1999; Donna e Poesia, 2000; Poiesis, 2001 e 2003; Hebenon, La mosca di Milano, Leggere Donna, Poeti italiani verso il nuovomillennio, 2002, Folia sine nomine secunda, 2005.

fonte www.literary.it
www.stefanodonno.blogspot.com

domenica 27 aprile 2008

Eva contro Adamo. di Giovanna Vizzari (Lietocolle)

Se in un corpo d’uomo vive una donna. Ma anche il contrario. Giovanna Vizzari, nota poetessa e scrittrice nata a Piombino, discepola di Betocchi e Luzi, autrice di opere ampiamente riconosciute come Le lunghe ombre dei campi e Un Letto per Penelope, col romanzo Eva contro Adamo affronta un tema che oggi fa ancora tanto discutere e riflettere. “Sin dalle umane origini il rapporto tra portatori di sesso opposto si è rivelato tanto complementare quanto contrassegnato da un antagonismo che, nelle sue mille sfaccettature più o meno evidenti, più o meno sostanziali ha scritto, nella storia dell’umanità, pagine di straordinaria ricchezza e varietà: memorabili commedie o drammi in un perenne susseguirsi che, ancora ai nostri giorni, non vede la sua fine. Di gran lunga si aggrava questa compatibilità, spesso paradossalmente incompatibile, quando i medesimi conflitti vengono a trovarsi nel medesimo individuo; quando in un corpo d’uomo abitano una mente ed una psicologia femminili, e viceversa. Questo il tema che ha voluto affrontare Giovanna Vizzari nella sua più recente opera in prosa: racconta infatti con coraggio, senza falsi pudori e con impeccabile competenza, ‘una storia d’identità di genere’ che ha come protagonista l’opposizione tra il maschile e il femminile nella sua manifestazione più estrema, quella della transessualità”.
Infatti spiega la curatrice del volume Antolisei.
Protagonista della storia è Simone. Simona. Creatura che vuole esser donna ma in fattezze d’uomo. E la sua famiglia non sa capire. La società dà invece solamente falsa comprensione. Eppure, oltre quanto in tutto questo, ci sono alcune amicizie. Il percorso di Simone – Simona è dunque caratterizzato da momenti durissimi, in una Capitale fatta vedere con mille occhi. Dove allora il dramma del personaggio centrale delle vicende non è che un soggetto rappresentativo di tante altre vite. Fino all’ospedale, che darà la risposta tanto attesa.
La transessualità, va specificato, grazie a questo romanzo, è presentata quale normalità considerata generalmente anormale. Giovanna Vizzari con la sua scrittura permette a tante e tanti, magari a tutte e tutti – persino - , di affrontare una tematica presa normalmente di mira. Con la grazi stilistica che le è propria, poi, la scrittrice d’origini toscane da uno strumento in più per sghignazzare di fronte ai volti tristi degli ignoranti.

NUNZIO FESTA

venerdì 25 aprile 2008

Repubblica Salentina ... è uno stato d'anima!











Sul sito della Repubblica Salentina (www.repubblicasalentina.it) è pubblicato il ricchissimo e infinito programma della Notte Bianca Leccese di domani 26 aprile (arte, musica, cinema, fotografia, danza, ....). Chi non c'è, ....non c'è!!
Becca l'InfoBoyz e vinci!!!! Sulla stessa pagina troverete questa simpatica iniziativa che potrà farvi vincere gli sfiziosi adesivi e gadget della Repubblica Salentina





mercoledì 23 aprile 2008

Antonella Gravante. Giravolte

Non aveva mai permesso che il solleone fiaccasse la carica di vorace curiosità per una città che pareva reggersi su blocchi di megalitici marzapani, dall’odore e dal colore di grano macinato di fresco: quelle forme e quegli spazi portavano nutrimento al suo cuore affamato di preadolescente, costretto altrimenti in limiti assai angusti, ogni volta che si spingeva per labirintiche esplorazioni.

In estate, quando la canicola lasciava deserta ogni via del piccolo centro e dominava il silenzio, come altro ingrediente necessario alla percezione di proustiano sapore, in alcune stradine strette e tortuose, le giravolte, si procurava il vero alimento che tanto desiderava. Erano un reticolo di viuzze, simili a calli o carruggi, in cui ci si disorientava perché, a volte, vicoli chiusi o corti di vetusti palazzi sbarravano il passo, ma quasi mai ci si perdeva, anzi quasi sempre, un percorso, cominciato senza prestabilire la meta seguendo l’andirivieni di arabeschi meandri, poteva concludersi al punto di partenza. Proprio come nella vita, a volte, l’iniziale disorientamento di una scelta casuale ci regala sorprese altrimenti negate. L’unico sollievo alla calura di fine luglio era un lieve spostamento d’aria che la sua bici verdazzurro alimentava, fendendola come coda di sirena e il divertimento iniziava quando, in piedi sui pedali, allungava la braccia e si tendeva veloce nell’afa.A quell’ora alcune persiane chiuse emanavano sentori di legno appena tagliato e qualche truciolo sulla soglia confermava la bottega di un falegname; pochi metri più avanti in uno slargo triangolare un forte profumo di vino annunciava un’osteria dove pochi avventori, già alticci, lanciavano risate troppo allegre inebriati dagli odori di polpette fritte e sugo alla cipolla; appena svoltato l’angolo una tenda per il sole a righe appena riusciva a stemperare la fragranza di succulenti frutti rossi, di peperoni maturi e di verdure inutilmente bagnate, di agli e origano, esalata dalle larghe maglie quadrate della saracinesca abbassata contro la calura. Ma, appena pochi metri più in là, l’aroma del caffè copriva tutto e sull’ingresso di un piccolo bar alcuni tavolini tondi ospitavano clienti intenti a portare alla bocca bicchieri con ghiaccio e latte di mandorla o sorbetti di limone grattugiato ancora un po’ acerbo. Procedendo per una piazzetta rapida frenata di fronte ad un portale bugnato: portone semiaperto, atrio quadrato con lampione di ferro battuto e scalinate ai lati; gincana davanti ai piccoli portoni scrostati dal tempo separati dalla strada da due o tre gradini, e protetti da basse ringhiere in ghisa nere, dalle finestre tendine di lino bianche lasciavano intravedere rossi salotti di velluto con frange dorate o alti comò i cui specchi maculati riflettevano foto ingiallite e copriletto di pizzo, eredità di bisnonne; seminterrati, alcuni finestroni delle cantine emanavano un fresco tanfo di muffe polverose che si mischiava all’effluvio del pitosforo e del gelsomino, così intenso che alti muri di antichi giardini non riuscivano a contenere, ma non tanto da coprire quello di incenso dei pini.L’energia del sole veniva smorzata da grappoli di nuvole e l’aria carica di elettricità provocava un senso di ansia non definibile:lo zigzagare allentava un po’ la soffocante cappa di umidità che aveva zittito le pettegole cicale; svolta d’improvviso e in un angolino d’ombra un cane giallino come le pareti, fiutava l’aria: il passaggio della bicicletta non distraeva l’animale dal compito di annusare le nuvole cariche d’acqua sulle loro teste. La pioggia cominciava a scendere fragorosa sulle pietre arroventate che, evaporando il calore assorbito, impregnavano di un afrore salmastro il porticato dove si era addentrata; dai muri scrostati di una scalinata una lucertola guadagnava fulminea la via sotto un geranio rosso. Il lastricato irregolare era ricoperto di pozzanghere, rese melmose dalla pietra dilavata delle pareti gia corrose; il temporale sfarinava i blocchi tufacei, infiltrandosi nelle intercapedini e ne imbibiva la malta scura; dalla roccia, diventata giallo-ocra, affioravano le concrezioni di piccoli fossili di conchiglie, memoria delle viscere di una terra un tempo ricoperta dal mare. Aspirava la frescura e si lasciava avvolgere dal colore: lo stordimento regalava il ricordo di cose mai vissute…

fonte iconografica www.centrointernazionaleartefotografica.org
foto di giuseppe lipori

domenica 20 aprile 2008

Marco Bonerba e L'odore della Fiera

Poggiavo il mento sul manico della scopa, che stringevo forte nelle mie mani, fissando un gabbiano che armeggiava tra le sue piume. Era appollaiato su una ringhiera malmessa del lungomare, all'ombra di uno dei caratteristici lampioni a tre bracci, e nonostante la gente, passando, lo sfiorasse, continuava placidamente a rovistare tra le sue ali. Di tanto in tanto interrompeva bruscamente, si guardava attorno e poi, sembrando compiaciuto che il mondo non avesse subito alcuno stravolgimento, ricominciava con vigore il suo lavoro. Ripresi a spazzare. Anche quel giorno la rotonda portava le tracce della sera prima, dove, sotto lo sguardo distaccato del Circolo della vela illuminato d'arancione, la meglio gioventù splendeva di gioia, speranza e spensieratezza dando una voce allegra alla città che così sembrava sgranchirsi dopo il freddo invernale pronta a mettersi in canottiera e con una sigaretta tra le dita a guardare giù dal balcone. Una tipica sera che con cinque euro, da una di quelle bianche e fumanti scatole di scarpe che odorano un po' di Fiera del Levante, puoi comprarti un panino e una birra, abbracciare la tua ragazza e guardare la luce del faro immaginando con lei un futuro meraviglioso che forse ti attende, o forse no.

«Se ti do un euro in più me li metti i pomodori sott'olio, i crauti e le patatine fritte?».

Erano i primi di maggio, l’aria fresca della primavera mi aveva dato il benvenuto appena fuori casa qualche ora prima e mi tenne compagnia per tutta la mattinata, sussurrandomi nelle orecchie quando si alzava il vento. Avevo quasi terminato il mio turno e anche quella volta era stata dura: bottiglie, cartacce, buste. Il mio compito era cancellarle, insieme alle loro storie: le lacrime della ragazza sul fazzolettino, le risate degli amici con le lattine in mano, il sollievo del signore che fumava la sua sigaretta dopo un’interminabile fila alla posta.

Un fruscìo di scopa e via. Via ad altre emozioni.

Mi asciugai un po' di sudore dalla fronte con il braccio e trascinai per qualche metro ancora il mio carro blu accettando la provocazione di quella lattina che con il suo rosso fuoco sfidava il grigio del marciapiede. Finì anche lei nel mio bidone di plastica nera, insieme a una vecchia sciarpa biancorossa di una squadra di calcio che “noncivadopiùallostadiosenoncambiailpresidente”. Sfrecciò un motorino zigzagando tra le macchine e l'autista di un furgone rosso e blu in apnea in un abitacolo sommerso da corni e ferri di cavallo, frenando, invocò San Nicola.
Erano le 12, fine del mio turno, e alzando lo sguardo vidi la mia donna. Mi osservava, disse, da un po’. «Stasera andiamo al cinema, che ne dici?». Risposi con un sorriso e un cenno affermativo del capo e lei, incurante del mio stato, mi abbracciò con tenerezza.
Il gabbiano saltò giù dalla ringhiera, volò per un po' sfiorando l’acqua con la punta delle ali, e poi puntò verso l'alto. Soddisfatto tornava al suo nido.

sabato 19 aprile 2008

Una buona giornata di Giuseppe Calogiuri

















Clac

DLIN-DLON

La porta si apre mentre il campanello elettrico avverte il signor Luigi del mio ingresso nel suo negozio di alimentari in Piazza Mazzini, angolo via Trinchese.
«Buongiorno, signor Luigi!».
«Oh, buondì avvocato, qual buon vento…!».
«Mah… più che il vento, è la fame…».
«Ah…! Sempre con la battuta pronta, eh?... mi dica, mi dica… cosa le do oggi di buono…?».
Un croccante odore di pane va spiegandosi nel negozietto, piacevolmente insinuandosi.
«Allora… per prima cosa mi metta da parte quattrocinque panini… ah, sì… ed un paio di bottiglie di succo di pera… si figuri che ormai lo preferisco la mattina in vece del solito caffè da quando ho scoperto che mi fa accumulare meno stress».
«Eh, già, avvocato… dopotutto col tempo si cambia…».
«Beh… solo lo stolto non cambia mai opinione dopotutto».
«Sempre in vena di citazioni, eh avvocato? … ma dopotutto se non se le può permettere lei con il mestiere che fa…».
WHH-GHEEEEEEEEEE
Solo adesso mi accorgo che c’è una carrozzina dietro il bancone della cassa, lì, vicino a quel calendario fisso al mese di agosto ed alla sua rispettiva foto, una veduta notturna del Duomo firmata, come sempre, del vecchio amico Ennio, occhio della città (apprezzo il fatto che il sig. Luigi abbia abbandonato i calendari con donne in desabillè per più folkloristici lunari locali).
«AVVOCATO UN ATTIMO! ».
Mentre il mio salumierepanettieredifiducia si precipita verso la porta che dà sul retro del negozio tornando con un biberon caldo, messo lì da parte per il/la piccolo/a urlatore/trice.
«Hheeiiii… gughi-gughi… macchettiappreso carotina…».
«…ma è splendida…!».
«Mia nipote. Sa, mia figlia è a Mantova per un colloquio di lavoro, allora mi ha chiesto di tenerle la piccola Alessia per questa settimana, e visto che a casa da sola non poteva stare, ho pensato di portarla qui con me, tanto fastidio non me ne dà... ».
«Ah… ma ora cosa vorrà mai…?».
«Eh… sono le otto meno un quarto, è l'ora della poppata, più puntuale di un orologio svizzero… tieni, prendi il tuo biberon…».
Accenno un sorrido sbuffando dal naso.
«…beh Luigi, per me è ora di andare, i giri mattutini non li ho ancora terminati prima di scappare in studio, eddevo passare da casa per lasciare queste cose… ».
«Allora buona giornata, avvocato, emmisaluti la professoressa che è da tanto che non la vedo...!».
«Certo, Luigi, non mancherò, buona giornata... ».
Mi dirigo verso la grande porta di vetro con infissi in alluminio, la apro, il campanello suona lo stesso, ed esco.
Un cielo terso e pulito fa da sfondo ad un sole che, timido e vigliacco, prova ad intiepidire una troppo fresca mattina novembrina, rischiarando rendendo un po' meno grigio il cemento che domina nel centro di PiazzaTrecentomila-come-la-chiamava-mia-nonna.
Mi fa un po’ rimpiangere la mia vecchia casa al centro storico, bianca e luminosa ai primi raggi, mentre il vecchio anfiteatro romano faceva capolino tra le fenditure delle imposte, incarcerate quasi tra verdi sbarre di erica.
Mi fermo alla solita edicola.
«Buongiorno».
«Oh, salve avvocato! Ecco il suo quotidiano… ah, le ho procurato quell'inserto arretrato… eccolo qui».
«Oh, grazie, Mario…».
«…ma si figuri è un piacere…».
Ci credo, tanto sono io a pagarlo il doppio visto che è arretrato.
»Ah, ma la professoressa? non la vedo da un po'… eppoi oggi è arrivato il nuovo numero di "Donna oggi"».
«Ah, bene… me lo dia… glielo porterò a casa… non è stata molto bene ultimamente…».
«Beh, si, capita, forse siamo distratti tutto l’anno da questo bel sole e non ci accorgiamo che le stagioni cambiano e si rinfrescano, e basta un niente per ammalarsi… le faccia gli auguri di pronta guarigione, mi raccomando avvocato! ».
«Grazie, Mario, buona giornata».
E vado via, mentre ascolto il mio edicolante di fiducia tessere le lodi del mio lavoro, della mia posizione sociale, del mio si è fatto da solo, dei miei movimenti bancari sui quali è ben edotto dal fratello che lavora allo sportello della mia banca, e bla-bla-bla con il verduraio lì accanto.
Passo sotto il quadrangolo alberato della luminosa e plumbea piazza, facendo attenzione ai soliti stormi di volatili lì appollaiati, ma che forse a quest’ora non sono ancora nella loro tristemente nota fase digestiva.
Arrivo a casa, intanto, ed il portiere mi accoglie con un ampio sorriso, salutandomi ossequioso una decina di volte, mentre mi consegna una lettera dell’amministratore per la solita inutile riunione nella quale inutilmente protesterò per le universitarie del piano di sotto, che inutilmente trascorrono il loro tempo con inutili party-per-festeggiare-l’esame dell’inutile Facoltà di Legge che tanto avvocati siamo già troppi (ma non-inutili), tutto questo mentre altrettanto inutilmente la sera cerco di prender sonno.
Ma il portiere mi ossequia lo stesso.
Clac.
Entro a casa, ed appoggio la spesa in cucina, le arance prese ieri hanno profumato l’intero ambiente, sostituendosi al lezzo di cavolfiori lessi che fino a ieri non voleva saperne di andar via. Mi dirigo in bagno per un impellente bisogno di mingere, sarà stata l'aria fresca mattutina a stimolarmi. Mi lavo le mani ed entro in camera da letto, da mia moglie.
Le tapparelle sono semichiuse, e lasciano permeare quel primo sole mattutino sulle coperte, ingrossate dal corpo della donna che amo.
Faccio piano, mi siedo accanto, mentre le molle del materasso cigolano lievemente, e le accarezzo i capelli, mentre il loro profumo mi assale. Le passo il mio indice destro sul volto, disegnandolo quasi, mentre la bacio sulle sue labbra, dolci e morbide, e mai come adesso mi rendo conto di averla imbalsamata davvero bene.

fonte iconografica www.svirrus.blogspot.com

venerdì 18 aprile 2008

Claudio Campagnuolo e il fantasma di Castel Sant'Elmo

Io sono Massimiliano Sorrentino, napoletano, trenta anni.
Di solito quando si pensa alla mia città viene alla mente il Vesuvio che si specchia nel golfo, si ricorda la pizza e le melodie suonate dai mandolini. Più spesso, quando di Napoli ne parlano i giornali, si fa riferimento a cose negative, i morti della guerra di camorra, gli episodi di mala sanità o di abusi edilizi, e frequentemente anche ai falsi in concorrenza con le copie delle griffe fatte dai cinesi. Per chi però vive questa realtà quotidianamente la città è fatta da tutte queste cose messe insieme e molto altro ancora.
Esiste però un luogo dal quale tutto appare distante e quasi incantato, un posto dove gli stereotipi e lo squallore si fondono in un tutto unico e la mia Napoli acquisisce un fascino indiscusso. Questo posto è la grande terrazza di Castel Sant’Elmo. Il maniero a forma di stella irregolare è abbarbicato in cima alla collina del Vomero e i suoi spalti rappresentano un punto di osservazione preferenziale.
Amo davvero molto salire fino agli spalti del castello, col vento che anche in estate soffia veloce tutt’intorno. Quando il cielo è particolarmente pulito e terso in lontananza si vedono Capri e, dalla parte opposta, Procida che si stendono nel mare come lembi di terra promessa. Osservando invece verso il basso si vede quasi tutta la città stesa ai tuoi piedi, con la lunga via di spaccanapoli che nera arteria taglia in due il centro storico.
Mi piace così tanto quel posto che ci vado ogni volta che ne ho la possibilità, quando sono triste e voglio restare solo coi miei pensieri, quando voglio godere di una vista incantata per ricordare quello che c’è di bello nella vita, quando vago senza una meta in cerca di un rifugio.
La mia avventura è cominciata proprio sugli spalti di Castel Sant’Elmo. Era un assolato pomeriggio di luglio, al tramonto, e il sole scendeva rapido in mare come un pulsante disco di fiamma che si discioglie nell’azzurro. Era tardi e dovevo andare via ma lo spettacolo era così incantevole che decisi di scendere all’uscita non usando l’ascensore ma passando per i camminamenti di ronda, un percorso poco noto ma di grande suggestione. Si fa il giro attorno al maniero potendo godere ancora dell’atmosfera senza tempo che vi si respira.
Ero completamente solo e a farmi compagnia c’erano solo il fischio del vento e il canto di uccelli lontani. Dopo una svolta però mi trovai di fronte a qualcosa di inatteso. Ormai il sole era completamente scomparso e le ombre si allungavano rapidamente conferendo un aspetto vagamente sinistro al lungo tunnel. In fondo proprio a ridosso del possente muro. C’era un energumeno biondo che piagnucolava.
«Io nun so stat’! Io nun sapev’ nient’!». Ripeteva con voce profonda e sepolcrale come di prete vecchio.
Il suo abbigliamento era insolito e lacero: una camicia bianca sporca di sangue e brache nere e consunte. Quando l’uomo mi vide mi rivolse uno sguardo di fuoco poi si voltò e sparì nel muro.
Io ero sconcertato, volevo credere che fosse solo uno stupido scherzo ma non c’era nessuno attorno a me che ridesse. Cercai di non perdermi d’animo, mi feci il segno della croce e a passo veloce mi allontanai dal castello. Finalmente mi ritrovai nel chiasso e nel via vai dal sabato sera e le voci della gente intorno a me, le luci ammiccanti dei negozi e dei ristoranti mi diedero conforto. Lentamente i miei timori si dileguarono e mi convinsi di aver avuto semplicemente un’allucinazione.
Quella notte però dormii male, strani incubi rendevano inquieto il mio riposo e la mattina mi sentivo più stanco di quando mi ero coricato.
Così la mattina dopo decisi di scoprire qualcosa e mi rivolsi a quella che nel quartiere era considerata la massima autorità in fatto di antiche credenze napoletane: il professor Egidio Esposito, insegnante di storia e filosofia in pensione. L’anziano docente viveva nel palazzo di fronte al mio, al terzo piano. Tutti lo conoscevamo e lui ricordava tutti noi. Molti, tra cui io stesso, eravamo suoi ex allievi poiché aveva insegnato per più di vent’anni nel liceo del quartiere.
«Mi scusi per l’ora professore, ma ho bisogno del suo aiuto!». Dissi quando infine bussai alla sua porta.
«Niente, niente, Massimilià, non ti scusare». Rispose lui invitandomi ad entrare. Anche in casa il professor Esposito era perfettamente vestito, completo scuro con cravatta intonata. Dietro gli spessi occhiali in finta tartaruga gli occhi di settantenne brillavano ancora fieri e severi. Nonostante l’età infatti il professore era perfettamente lucido e sempre pronto ad andare incontro a tutti con i saggi consigli e un discorsetto da nonno.
Dopo il consueto, immancabile rito del caffè servito, nell’antiquato salotto, con infinita grazia dalla moglie del professore, la dolce signora Amalia, ci spostammo nello studio per affrontare il motivo che mi aveva condotto sin lì. Lo studio, una camera in piena luce, era arredato con mobili antichi, eredità del nonno di Esposito che era stato segretario di un famoso e ricco notaio, tutto attorno sulle pareti e in ogni angolo disponibile una confusa massa di libri pareva sostenere da sola il soffitto.
Quando ebbi raccontato la mia storia il professor Esposito proruppe in esclamazioni di sincera meraviglia.
«Figlio mio e tu sei stato davvero fortunato! Un PRI-VI-LEG-GIA-TO!». Affermò il professore. A quelle parole fui io a sbarrare gli occhi per lo stupore.
«Lei dice?». Chiesi tra l’incredulo e il sarcastico.
«E si! Tu hai avuto il rarissimo onore di vedere il fantasma di Castel Sant’Elmo. Quello è uno spirito che si manifesta così di rado che molti quasi non credono che esiste per davvero». A quest’ultima frase del professore non potei trattenermi dal sorridere: mi pareva così strano affermare dare per certo l’esistenza dei fantasmi. Poi però ricordai il terrore che mi aveva colto inaspettato quando il gigante biondo simile a un vichingo era scomparso nelle spesse pareti del vecchio maniero.
«Devi sapere, figlio mio, che questo spettro ha una storia tragica e inconsueta alle sua spalle». Spiegò il professore. «Il fatto era avvenuto ai tempi di Francesco I di Borbone, sovrano reazionario e poco incline alla costituzione. Sotto il suo governo fiorirono nel Regno delle due Sicilie un gran numero di sette segrete dai nomi insoliti, Filadelfi, Edennisti e Pellegrini Bianchi, con scopi più o meno libertari e rivoluzionari.
Proprio gli Edennisti, che proclamavano l’insorgere di un nuovo stato futuro, basato sulla fratellanza e sull’amore, stavano organizzando una rivolta cittadina per cercare di destituire il sovrano o quanto meno di convincerlo a concedere l’agognata costituzione.
Tra le loro fila militava un giovane, chiamato da tutti o’ tedesco per i suoi capelli biondi e gli occhi azzurri. In realtà il giovane era figlio illegittimo di un capitano austriaco e una servetta troppo ingenua, ma per il fantasioso popolino partenopeo non c’era troppa distinzione tra Germania e impero Austro-Ungarico. Il ragazzo, nonostante l’aspetto di gigante era innocuo e a quel che si raccontava ingenuo come un fanciullo sebbene all’epoca dei fatti avesse più di venti anni.
Sfortuna volle che la rivolta venisse scoperta dalle guardie del re ancor prima di esplodere e i capi rivoluzionari catturati e imprigionati. Qualcuno aveva tradito i congiurati svelando al governo regio quello che sarebbe dovuto accadere, forse dietro compenso in oro sonante. Serviva però un capro espiatorio e qualcuno pensò bene, con una ironia perversa, di far ricadere la colpa del tradimento sul povero gigante biondo.
La folla si accanì su di lui spingendolo all’antico maniero perché venisse arrestato come quelli che si diceva avesse tradito. Così il giovane correva avanti incalzato dalla folla inferocita. Scappando si ritrovò sugli spalti del castello e da lì, gridando al vento la sua innocenza, cadde nel vuoto morendo sul colpo. Non si seppe mai se una mano ignota lo avesse spinto.
Da quel fatidico giorno l’anima del tedesco si aggira sugli spalti in cerca di qualcuno che possa crederlo innocente. Quello era il senso delle parole che hai sentito. Poiché però anche in vita era stato molto timido le manifestazioni sono scarse e poco documentate». Si concluse con queste parole il racconto del professore.
Adesso avevo le idee più chiare e provai una gran pietà per quella povera anima inquieta. Lo stesso giorno mi recai nuovamente a Sant’Elmo, nello stesso punto in cui avevo incontrato lo spettro. Avevo con me un piccolo cero bianco. Lo accesi e feci colare in un angolo poche gocce di cera fusa per fissare la candela votiva al pavimento. Poi mi inginocchiai e pregai per lui.
Non so se lo spirito del giovane assassinato abbia avuto un poco di pace dal mio gesto ma certo imparai da quella storia ad avere più rispetto per tradizioni antiche che spesso avevo sottovalutato. E poi da allora ogni volta che salgo sui tetti antichi del castello ne scopro un nuovo, misterioso e inquietante fascino crepuscolare.


fonte iconografica www.paranormale.com

giovedì 17 aprile 2008

Il Re Vagabondo di Ilaria Ferramosca

Grazie per aver fatto scendere la sera, chiunque Lei sia.
É la Signora di questo luogo, credo. Almeno così mi pare di capire, del resto io non conosco bene la vostra lingua.
Però da quando mi hanno portato qui un po’ di tempo fa, ho imparato molte cose, le ho imparate da solo, ascoltando e osservando.
Passo parte del mio tempo seduto a terra su questa pietra, con fare quasi sempre sonnolento e quando arriva il buio finalmente riesco a trovare un po’ di sollievo dal caldo asfittico di questa cittadina, anche lei seduta, ai piedi della collina ad aspettare un po’ di elemosina da pochi turisti distratti.
Vivo la mia vita misera e randagia di vagabondo, con la fierezza e l’orgoglio tipici della mia natura, con la consapevolezza che l’unica cosa che io possegga al mondo, nessuno me la toglierà. Sono libero, libero di accettare una mano tesa, un po’ d’affetto, un amore stagionale… zingaro ma mai trasandato.
Sa, Signora, Le chiedo scusa se spesso occupo questi gradini, ma la Sua casa è aperta a tutti, dunque anche a me penso, non è così che la gente dice di questi edifici? Anche se io non so pregare come fanno loro e forse non ho bisogno di farlo, perché non ho niente da chiedere in cambio.
Le pietre di questa dimora, porose, del colore della vostra sabbia – l’ho vista girando più di una volta –, mi danno un senso di pacatezza e quando la guardo da qui, seduto, mi sembra che quella torre accanto, illuminata all’interno, sia veramente gigantesca e rassicurante.
Ogni tanto sbircio nel Suo palazzo, che ha vetri colorati, e alcune finestre in alto hanno la forma di un fiore. Dentro c’è fresca penombra, sedili di legno e tantissimo spazio.
Vien fuori un odore… così soavemente delicato, un po’annacquato per me che sono abituato agli olezzi acri e pungenti della strada, delle persone, dell’asfalto calpestato da mille e mille suole.
La guardo là in fondo, con in braccio il Suo bambino e mi ricordo che qualche volta, chissà quanto tempo fa, qualcuno ha tenuto in braccio anche me, ma non provo tristezza né nostalgia.
Fra non molto qui sarà pieno di luci sfarzose, che incorniciano le strade anguste e le accendono come fosse giorno, mi sembra di capire che si tenga una nuova festa, una festa in Suo onore, Signora.
Lo ricordo già da un’altra volta. La prenderanno in spalle e La faranno uscire da quel Suo palazzo, bella e adorna di fiori che sanno di maggio e si mescolano al profumo di queste siepi antistanti. E improvvisamente queste viuzze si riempiranno anche di suoni assordanti e boati che un po’ mi spaventano. Ma io resto qui, mi nascondo lateralmente, vicino a quel leone di pietra che mi riporta alle mie origini.
Sì, resto qui perché l’aria s’inonderà anche di profumi di dolci zuccherini e di salsicce arrostite, ed io spero che qualcuno mi regali qualcosa da mettere in questo stomaco vuoto.
Quindi mi fermerò seduto giù, in basso, ad osservare gambe e bambini che passano piangendo, con lo sguardo appeso a palloni colorati appena sfuggiti dalle loro mani e volati lontano… lontano chissà dove, lasciando un senso di tristezza e di ignoto. Verso quale luogo andranno mai? E se ci salissi sopra, potrei tornare da dove sono venuto?
Intanto si popola, questo piazzale. La gente si accalca sui gradini aspettando che Lei esca.
Mi è sembrato di capire che vive qui da molti, moltissimi anni e che un tempo Le piaceva sostare nei campi coltivati. Le hanno costruito questa casa proprio qua, perché la campagna è più vicina e quando quella gente tentava di portarLa dentro qualche palazzo come questo, nel paese, Lei scappava per tornare sempre nello stesso posto. Mi piace la Sua storia, anche Lei ama la libertà e la natura? Del resto, è la Signora dell’agricoltura ho sentito dire.
E ora? Sta per uscire lo so, così mi sposto a fatica da questi scalini, tanto nessuno si accorge di me in questo momento, né mi importa ormai che lo facciano. Sono estraneo a questa folla, sono straniero e di un’altra razza, eppure questo luogo è più mio di chi ci abita.
Posso dormire sull’erba del parco sotto le stelle pulsanti, tutte le volte che voglio, non come voi che abitate questa cittadina, segregati nelle vostre case. Salutare l’ultimo lampione che si spegne, sentirmi il padrone di tutte le piazze, osservare i ragazzi che vanno, vengono, si stipano in questo parcheggio, ridendo rumorosamente e cercandosi con gli sguardi per trovare in altri occhi qualche mondo simile al loro.
Voi non lo sapete, ma spesso la notte mi arrampico sui palazzi antichi e conosco i segreti delle vecchie pietre e vedo dettagli che voi ormai, distratti, non vedete più. Stemmi vetusti, volute, archi, decorazioni di colonnine nascoste e balconi. Entro nei giardini, salgo sui vostri alberi, poi torno fuori a guardare le strade deserte.
Vedo i fantasmi dei vostri antenati, aggirarsi tra i ruderi di antichi conventi, lasciati marcire fra le unghie del tempo, che strappa via via frammenti di pietra e calce bianca.
Sento vibrare le vostre emozioni, di cui vi disfate per impazienza, perché non avete il tempo di prestar loro attenzione. Tristezze inascoltate, amori abbandonati e mai nati perché troppo difficili da coltivare con la calma di un giardiniere, gioie consumate in fretta e non vissute fino in fondo, come merendine morse, appena assaporate e poi gettate via da mani troppo sazie.
Annuso nell’aria i vostri desideri e vedo materializzarsi i vostri sogni di gente ambiziosa e fin troppo pragmatica. Vi agitate e annaspate come naufraghi in un mare di futilità, aggrappati ad oggetti che stringete come se dovessero salvarvi la vita. Involucri, solo involucri: scatole di tufo, scatole di acciaio, scatole piene di fili e luci…
E quando arriva l’alba io torno sui gradini a dormire, mendicante di giorno, eroe di notte, mentre intorno la cittadina si sveglia e si muove tra le nebbie di maggio e mi vortica intorno aggiungendo un senso di stordimento più forte, al torpore della mia stanchezza di avventuriero del buio.
Intanto voi correte al lavoro frenetici come sempre, a cercare di guadagnare un po’ di quel denaro che a me non serve, né mai mi servirà per essere re.
Si mia Signora, mi perdoni se dico questo, se dico che io sono il re di questa piccola città di provincia, che cerca di sentirsi grande ed evoluta riempiendosi di nuovo cemento.
Una piccola città che si è data come nome Para-abíta, Abitare vicino, forse con l’ironica pretesa di essere al centro di tutto, tanto da poter arrivare con un solo passo in qualsiasi altro posto.
Certo, lo so che Lei qui è la Patrona, ma io sono senz’altro il sovrano, perché è nella mia natura osservare con fare regale tutto ciò che mi scorre davanti.
Così, anche in questo luogo al sud d’Italia come in tutte le città del mondo, il vero re sono sempre io… un gatto!
fonte iconografica www.templarioggi.it

mercoledì 16 aprile 2008

Antonio Errico al Fondo Verri

Fondo Verri
Presidio del libro di Lecce
In collaborazione con:
Presidio del libro Germinazioni del Centro di Salute Mentale Asl di Lecce
S.I.U.I.F.A. - Sezione Italiana dell’Union Internationale dès Femmes Architectes
Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesagisti e Conservatori della Provincia di Lecce

Marzo - Aprile 2008
Abitare i luoghi, tra cura e progetto
incontri di approfondimento del rapporto tra territorio e comunità
a cura di Cristina Caiulo architetto (Studio AERREKAPPA di Lecce) e del Fondo Verri

Giovedì 17 aprile, ore 19.30
Il Salento: geografie letterarie
Incontro con Antonio Errico
e la presentazione del film documentario: “Un etnologo nel Salento” con Marc Augè.

Due libri: “Viaggio a Finibusterrae” e “Secoli tra gli ulivi” ambedue editi da Manni.
C’è un Salento magnifico, intatto, misterico. Di bosco, nella rada bassa del muschio, dove giallo e verde confondono velluto. Ombra fitta di foglie verde argento; scogli antichi che affiorano e pietre alzate a far recinto e dimora. Ancora c’è! C’è un Salento sospeso “tra il meraviglioso e il quotidiano” che scorgi, se miri. La pianura lo svela. Nascosto, laterale, speriamo dimenticato. All’orizzonte luce radente che carezza. Filtrano nubi e segnano il cielo di giganti maestosi. Condense d’umido travagliano l’animo. C’è il Salento. Lo scorgi se vuoi facendo un varco nella disillusione, tappandoti le orecchie e cercando cercando lo trovi intatto, ma per quanto tempo ancora? Se alzi lo sguardo l’incuria è tutto intorno, minaccia con il “non so”. Rimane il rifugio degli autori. Al riparo per non chiudere gli occhi, che c’è invadenza. Poco ascolto intorno. Poco fare. Tanto desiderio e pochi capaci di accogliere, di fare il cerchio!
Ad aprire la serata il documentario “Un etnologo nel Salento” del regista Giorgio de Finis, con Marc Augè. Il progetto del documentario è nato in occasione della presenza a Lecce dell’illustre etnologo ed antropologo Marc Augè, colui che ha coniato il termine “non luoghi”, ospite del convegno organizzato nel marzo 2006 dalla sede regionale della Sezione Italiana dell’Union Internationale des Femmes Architectes. Una “narrazione”, un “viaggio” nel territorio salentino, ai confini dell’Europa, per scoprire l’anima contemporanea di questa terra affacciata sul Mare Mediterraneo, e riflettere sui grandi temi che riguardano l’uomo - la solitudine, la morte, i confini tra i popoli, la convivenza tra uomini di etnie diverse, la vita nelle nuove città contemporanee con il nodo irrisolto del rapporto antico/moderno. Tutti temi che il Marc Augè e Marta Francocci (coordinatrice del convegno leccese della S.I.U.F.A.) hanno affrontato in questo “viaggio”, incontrando lungo la strada il regista Edoardo Winspeare, profondo conoscitore e amante di questa terra come, traendo spunto da alcuni luoghi emblematici, quali la Cattedrale di Otranto, la costa adriatica presso Torre Sant’Emiliano, Santa Maria di Leuca, il sito archeologico della Cavallino messapica e Lecce città.

Abitare i luoghi, tra cura e progetto
incontri di approfondimento del rapporto tra territorio e comunità

Nasce per favorire un approccio multidisciplinare ad una delle questioni fondamentali dell’essere umano, il presidio del libro Fondo Verri di Lecce dedica quest’anno il suo percorso di approfondimento tematico all’abitare, con un ciclo di quattro incontri curato dall’architetto Cristina Caiulo della Sezione Italiana dell’Union Internationale dès Femmes Architectes. In collaborazione con il presidio del libro Germinazioni del Centro di Salute Mentale Asl di Lecce, con il patrocinio e il contributo dell’ Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesagisti e Conservatori della Provincia di Lecce.

fonte iconografica www.bancalaureati.unile.it

martedì 15 aprile 2008

A volo d'Arsapo

Sarà presentato giovedi 17 aprile, presso la Biblioteca Comunale di Tuglie, A volo d’Arsapo (Note bio-bibliografiche su Maurizio Nocera) di Paolo Vincenti. Interverranno, alla presenza dell’autore, il prof. Gigi Scorrano, critico letterario e dantista di fama nazionale, e il prof. Mario Geymonat, docente di Letteratura latina all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Letture di Antonio Calò, della Calandra Teatro. Coordina Antonietta Fulvio, direttore editoriale Il Raggio Verde edizioni.
A volo d'Arsapo inaugura la collana “Vite e Scritture”, proponendo con il suo primo titolo una interessante raccolta bio-bibliografica su Maurizio Nocera, scrittore, giornalista, poeta, bibliofilo, infaticabile animatore di iniziative culturali nel Salento e nel mondo..
Il libro si articola in tre sezioni. Il primo è uno scritto di carattere monografico dove Paolo Vincenti ripercorre la vita di Maurizio Nocera, una vita votata alla poesia e alla scrittura, alla ricerca del vero senza mai perdere di vista l’autenticità e il sentimento come fondamento della comunicazione. Completano il volume, una raccolta di articoli e saggi brevi pubblicati su varie periodici e riviste locali negli ultimi anni in merito alla carriera e alla produzione letteraria di Nocera e una accurata bibliografia delle sue opere.
Scrive Sergio Torsello su Quotidiano : “ Lo scritto d’apertura significativamente titolato “Io e Maurizio Nocera”, testimonia non solo la personale fascinazione dell’autore ma anche un dialogo intenso tra due mondi lontani, per certi versi opposti, che tuttavia si incontrano sul terreno comune dell’impegno culturale. Vincenti ricostruisce con dovizia di particolari la multiforme biografia intellettuale del personaggio: il custode amorevole e appassionato dell’eredità di Antonio Verri, il gran tessitore di rapporti internazionali /(come non ricordare, tra i tanti, quelli con Joyce Lussu e Sergio Vuskovic Rojo), la capacità rabdomantica di scovare talenti negli angoli più sperduti della provincia. Sono quasi 250 i titoli censiti da Vincenti nella parte conclusiva del volume dedicata alla bibliografia di Nocera.” Per poter meglio conoscere ed apprezzare questo libro, che si pone come un validissimo ed utile documento sulla “instancabile vi(s)ta di Maurizio Nocera”, come scrive Mauro Marino su Paese Nuovo, appuntamento, quindi, nella serata del 17 aprile a Tuglie.
fonte iconografica Musicaos.it

lunedì 14 aprile 2008

Il cyberfemminismo secondo Cinzia Greco















Cos’è il cyberfemminismo? Beh, cominciamo a dire cosa non è: non è una moda, non è un’ideologia, non è uno dei soliti -ismi, non è contro l’uomo, e, fatto rilevante, non è una struttura.

Questa è una libera traduzione di alcune delle 100 anti-tesi tratte dall’elenco che nel 1997 è stato stilato dalle partecipanti al First Cyberfeminist International, tenutosi a Kassel, in Germania. All’evento hanno partecipato numerose artiste, scrittrici, studiose che si sono riunite per discutere del rapporto tra le donne e le nuove tecnologie, in particolare Internet e per elaborare nuovi progetti femministi di networking nei diversi stati.
In concomitanza all’evento venne fondato a Berlino il sito Old Boys Network col compito di raccogliere e diffondere numerosi lavori legati al Cyberfemminismo.
Contraddittorie e ironiche, le 100 anti-tesi, lungi dal definire il complesso fenomeno che lega tematiche storiche del femminismo a questioni proposte dallo sviluppo delle nuove tecnologie, mescolano le idee e sanciscono l’impossibilità di racchiudere in una definizione un movimento fluido e instabile.

Proviamo però a capire perché fluido e instabile: un po’ di storia.

Il termine cyberfemminismo è un neologismo composto da femminismo – termine riferito a dei processi politici e sociali legati all’emancipazione delle donne e alla lotta per la parità giuridica e politica –, e cyber. Questo prefisso deriva dal greco “kybernàn” che significa “pilotare” e comparve per la prima volta nel 1947, quando lo scienziato Norbert Wiener adoperò il termine cybernetics per indicare la scienza delle macchine in grado di autoregolarsi. Il prolifico prefisso ha dato origine a numerosi termini, tra cui cyberspace, elemento presente nei romanzi di fantascienza e che fuori dalle pagine dei libri indica l’ambiente virtuale che mette in comunicazione i computer di tutto il mondo permettendo agli utenti di interagire tra loro. Il cyberspace è il luogo d’azione del cyberfemminismo, poiché esso, come afferma Rosi Braidotti, una delle principali studiose italiane che ha analizzato il fenomeno, «cerca di utilizzare le nuove tecnologie a favore delle donne».

Una delle prime studiose a occuparsi del rapporto tra il pensiero, le attività femminili e le nuove tecnologie è stata Donna Haraway che scrisse nel 1991 il Manifesto Cyborg (edito in Italia nel 1994 dalla Feltrinelli, a cura di Rosi Braidotti). L’analisi della Haraway si articola in tre momenti:

- sulle prime traccia una descrizione della situazione socio-politica degli ultimi anni ’80, all’interno della quale si inserisce la riflessione sull’impatto delle innovazioni nelle telecomunicazioni e nella micro-elettronica. Inoltre mette attentamente in luce le contraddizioni del “villaggio globale” e sottolinea il rischio che
«si formi una struttura sociale fortemente bimodale, in cui le masse di donne e uomini di tutti i gruppi etnici, ma soprattutto di colore, vengano confinate [...] nell’analfabetismo di vario tipo, nell’impotenza e nel generale esubero, controllate da apparati repressivi alto-tecnologici che vanno dall’intrattenimento alla sorveglianza e alla sparizione [...]»;

- a questi aspetti si lega la necessità di (ri)formulare nelle teorie femministe un nuovo legame tra le donne e la scienza, al fine di favorire in esse lo sviluppo di una coscienza critica verso la tecnologia;

- nell’ultima parte del Manifesto si propone una mediazione tra la presunta assoluta oggettività del punto di vista della scienza e l’assoluta mancanza di oggettività di una visione relativistica dei fatti e delle cose. Questa mediazione si attua attraverso l’introduzione dei saperi situati, ossia l’adozione di un punto di vista parziale e stabile collocato nel basso della realtà corporea. Ma quella che il cyberfemminismo propone è una corporalità virtuale, ossia sospesa tra il corporeo e il fattore tecnologico.

Proprio questo ultimo aspetto del pensiero di Haraway costituisce uno dei temi fondamentali delle più recenti riflessione del cyberfemmismo. Le nuove tecnologie, in particolare Internet, modificano la rappresentazione che le donne danno di sé? E in che modo il Web può contribuire a veicolare una immagine della donna affrancata dai vecchi stereotipi?
Il cyberspace può essere considerato una versione riveduta e corretta di Utopia, un (non)luogo dove il sesso, l’età, la condizione sociale si dissolvono e possono essere ricreati ad hoc, le discriminazioni scompaiono e tocca agli attribuitori virtuali di identità, gli “avatar”, dire chi siamo.

Ma è davvero così? Pare di no, e non manca chi sottolinea che spesso l’anonimato e la virtualità non sono di per sé sufficienti ad abbattere le barriere comunicative. Faith Wilding, artista multidisciplinare le cui opere più recenti si incentrano sulle tematiche del cyberfemminismo, nel suo saggio, Where is Feminism in Cyberfeminism? afferma che


«a politically smart and affirmative cyberfemminism, using wisdom learned from past struggles, can model a brash disruptive politics aimed at decostructing the patriarchal conditions that currently produce the codes, languages, images, and structures on the Net».

Affinché il computer e la rete siano strumenti per risollevare le donne da un ruolo subalterno è necessario che esse assumano una posizione più attiva nella creazione, gestione e diffusione dei nuovi prodotti tecnologici

«Un movimento cyberfemminista brillante e propositivo dal punto di vista politico, che si avvale della saggezza acquisita nelle precedenti battaglie, può produrre politiche sfrontate e disgreganti che puntano a decostruire le condizioni patriarcali che attualmente producono i codici, i linguaggi, le immagini e le strutture nella rete» (traduzione Cinzia Greco).

Affinché il computer e la rete siano strumenti per risollevare le donne da un ruolo subalterno è necessario che esse assumano una posizione più attiva nella creazione, gestione e diffusione dei nuovi prodotti tecnologici, senza subire il Net come uno strumento creato dall’uomo per scopi prettamente maschili e da cui tenersi alla larga.

Infatti, ancora oggi nell’immaginario collettivo è ampiamente diffusa l’idea che le donne siano naturalmente tecnofobe: si ritiene che esse si accostino a un pc solo per necessità e che non siano per nulla interessate a seguire i progressi tecnologici. In realtà basta leggere alcuni articoli presenti nel sito del Mit (Ministero per l’Innovazione e le tecnologie) per scoprire che il numero delle donne in rete negli ultimi anni è notevolmente aumentato e che il pc, grazie alla diffusione di Internet, non è solo uno strumento di lavoro o un aiuto nella gestione familiare, ma costituisce uno svago e sempre più spesso diviene un mezzo per socializzare.

Le esponenti del cyberfemminismo sono state tra le prime a riconoscere le potenzialità di questi strumenti, ma anche il pericolo in essi nascosto. Sin dall’inizio il loro obbiettivo è stato quello di avvicinare le donne alle nuove tecnologie, affinché facessero proprie le conoscenze indispensabili per entrare nella realtà virtuale non solo in qualità di spettatrici ma come soggetti attivi in grado di creare nuove informazioni da diffondere nella rete e conseguentemente nel mondo. Il web deve inoltre essere considerato come un mezzo, potente sì, ma non il solo, e mai il fine utimo di una lotta: non si può realizzare una liberazione femminil/femminista del e nel cyberspace, che non influenzi anche il mondo esterno e tangibile.

fonte iconografica www.lastampa.it

domenica 13 aprile 2008

Gualberta Alaide Beccari e La Donna di Laura De Cristofaro

Voce dotta, pensieri puri, fieri, ardenti «La Donna».

«La Donna» rivista femminile che ha visto la luce il 12 Aprile del 1868. Sulle scene avanguardiste per circa vent’anni. Colei che ha promosso e diretto questo esemplare di lotta ed emancipazione femminile fu Gualberta Alaide Beccari, nata a Padova nel 1842, in una famiglia di mazziniani repubblicani.

Contesto storico

Lo scenario è quello dell’Italia che cambia, di un paese che diventa democratico e industriale. È il tempo del Risorgimento culturale e artistico, unito al cammino dell’emancipazione e affermazione dell’universo femminile


L’insegnamento repubblicano ricevuto dal padre fu un aspetto fondamentale per la crescita e la formazione di Gualberta, perché basato sull’istruzione e l’educazione.
Fu proprio con finalità pedagogiche e di formazione delle giovani, che venne ideata e realizzata questa rivista, organo di lotta democratica che intese il rinnovamento morale delle donne come una necessità prioritaria per il rinnovamento del giovane Regno d’Italia.

Per i tempi in cui queste donne rivoluzionarie contribuirono a scrivere un nuovo capitolo della storia, dovettero rischiare, azzardare, in una lotta d’avanguardia, nuova, prorompente, dimostrando grande coraggio, a volte anche spirito di abnegazione e profonde capacità professionali nel promuovere il loro impegno.


Gualberta si circondò di molte collaboratrici, le prime giornaliste, e con esse affrontò temi tra i più forti, tra i più “scomodi”, che spaziavano dai diritti della donna ai valori come l’uguaglianza universale e l’umana redenzione, e poi ancora il divorzio e la prostituzione. Molto spesso si affrontavano questi argomenti, in cui l’ispirazione mazziniana dava forma agli scritti, scegliendo

La Beccari si rifà all’insegnamento di Mazzini, secondo il quale ogni uomo nella società ha uguali diritti e doveri che si compenetrano, sono un tutt’uno

come modello l’epistola, la corrispondenza: la Beccari rispondeva a ogni mittente, analizzando il problema proposto, dandone una visione d’insieme e rifacendosi all’insegnamento mazziniano, secondo il quale ognuno nella società ha dei diritti e dei doveri che non sono a sé stanti, ma si coniugano formando un uomo giusto e un onesto cittadino, che lavora e si sacrifica per i propri principi e ideali.


Un altro riferimento della Beccari al Mazzini, che si scorgeva nelle sue pagine costellate di grandi valori, fu la visione mistica e religiosa della vita: una religiosità laica, basata su uno spirito di servizio mosso da un’azione tenace e proficua, che spesso si concretizzò in petizioni e raccolte fondi a favore della lotta.

Questa rivista diede modo di crescere professionalmente e di formarsi nel campo delle lettere a molte giovani, che iniziarono a pubblicare le loro timide opere poetiche e le loro prime pagine di letteratura. Cosa che prima era solo appannaggio degli uomini, ai quali diedero prova di non essere da meno, di essere altrettanto capaci di lasciare sulla carta la loro fantasia, i sentimenti, la loro condizione, i loro valori, la vita, amalgamando magistralmente il tutto con il loro vissuto storico.

Alaide osò entrare come protagonista nella società, sfidando gli uomini, occupandosi dei principali fatti politici della sua epoca, in cui si poteva già assaporare quel nuovo, deciso gusto unitario nazionale. Argomento principale di questo genere di articoli fu un’ampia condanna della politica di stampo imperialista di Francesco Crispi, ex mazziniano che, convertitosi alla monarchia, aveva infranto la fiducia di una fervente mazziniana.

Contesto storico

I movimenti politici socialisti, attivi ormai in tutta Europa fin dalla seconda metà del XIX secolo, capirono che le donne avevano bisogno di essere politicamente educate e combatterono ben presto al loro fianco

Questa giovane dalla vita intensa, che ha dato forma, contenuto e splendore ai suoi principi grazie alla rivista, stendardo facinoroso di uno spirito che ha il nome di donna, ha dovuto combattere contro avversari e accusatori annidati nelle fila dei reazionari liberal-conservatori e cattolico-clericali. Questi ultimi fermi nella convinzione che tutto ciò nasceva con lo scopo di traviare e corrompere dal proprio ruolo naturale le donne, dedite alla famiglia e alla casa, alla cura dei figli e dei mariti.


Nel 1890, la rivista «La Donna» di Gualberta Alaide Beccari cessa di esistere a causa del declino psico-fisico della giornalista, che presto morì.
Si spegne così, nel 1906 a Bologna, la vita di una donna saggia e laboriosa, che ha cercato sempre di dare lustro alla condizione del “gentil sesso”, promuovendo il sapere e la cultura per le donne, lei stessa segno vivente che quando si possiede una buona ricchezza morale, culturale e si conosce il sacrificio, chiunque può agire bene e con i migliori risultati, che si può arrivare ovunque si desideri con fermezza e coraggio.
Ha dimostrato con la sua esperienza che forse “l’inferiorità” risiedeva nel fatto di non averci provato prima.

Silla Hiks - Frontiera

















È solo una provinciale, ma nel buio incendiato dai fari è infinita come qualsiasi autostrada, un nastro di asfalto che può andare da qualsiasi parte senza finire mai.

E ogni volta - malgrado te, malgrado i nostri casini, malgrado la sveglia alle 4 e la stanchezza e il freddo della notte che c’è ancora - è questo che penso, che potremmo andare avanti per sempre, io e la mia motrice Mercedes che è tutti i miei averi, prima che finisca il mondo.

Sono un camionista, non potrei essere niente altro: anche tu, che mi ripeti sempre di rimettermi a studiare e di infilarmi una giacca e di cercarmi un lavoro ‘buono’ sai che non è possibile, lo sai anche mentre me lo dici. Perché io ho bisogno della strada, dell’illusione di lasciarmi alle spalle tutto e insieme dell’emozione di tornare qui da te e da questa terra che mi è stata imposta prima e che è diventata la mia casa poi. anche se è vero che se ci rimango è solo perché ci sei, e che senza te non sarei qui né da nessuna parte, nemmeno nella mia Germania: sei solo tu il mio respiro.

Mentre guido questi sei chilometri ti penso così forte che nel sonno ne sentirai il rumore. Tiro giù il finestrino e mi accendo una West e ascolto il silenzio della notte per quietare il boato dell’amore che provo, e che dopo tanti anni rischia ancora di travolgermi.

Non ci sono stelle, stanotte, e non c’è nessuna luna: soltanto qualche nuvola appena più chiara sopra il fondale nero. E, sul ciglio della strada, a qualche centinaio di metri, appena oltre la fine della carreggiata asfaltata ci sono loro, cinque ragazzi che camminano uno dietro all’altro, qualche vestito asciutto addosso e i sogni accartocciati dentro alla busta di plastica che ciascuno porta nella mano, con le facce antiche tagliate con l’accetta e i capelli tosati e poi lasciati crescere sulla fronte e lungo il collo, come li avevo anch’io quando avevo quindici anni, e all’Istituto d’Arte in cui aspettavo la qualifica e l’età della patente mi chiamavano il Vikingo.

Li guardo bene, e torno indietro all’87 da cui loro sembrano usciti proprio adesso, con quasi vent’anni di ritardo: uno ha persino lo stesso giubbetto di jeans con la fodera di finto agnellino bianco, quello che mia madre mi comprò dopo mesi di strenue trattative e che nessun adolescente di oggi metterebbe neanche se minacciassero di spararlo. Ma loro vengono da un mondo che è rimasto indietro, e per recuperare il tempo camminano spediti: ogni tanto si voltano a guardarsi indietro ma senza fermarsi, strappando veloci un filo d’erba che poi sfilettano con le dita con un indolenza assorta che sa di vaticinio.

Non sono i primi che incontro, da quando abitiamo al mare anche d’inverno ci sono quasi in ogni notte senza luna. Centinaia, migliaia come questo qui, che alza la testa verso i miei occhi e ha uno sguardo del mio stesso azzurro, e che è piccolo e magro e nodoso, e a vent’anni se pure, sembra già millenario. Lo vedo, nel retrovisore, coi pugni inghiottiti dalle maniche del golf a stringere il filo del suo cuore gonfiato dalla paura e dalle speranze, un palloncino che sta per volargli via.

Lecce è qua, oltre il ponte, dietro alla sagoma dello stadio e alla fine dello stradone tra cui qualche ora comincerà il mercato del venerdì, anche se lui non ci andrà , non ha certamente più soldi, dopo che si è venduto tutto per comprarsi il biglietto della lotteria che l’ha portato qui. E non credo nemmeno che comunque lo sappia, né del mercato né della città che è vicina, nel retrovisore è sparito mentre imbocco la rampa, non so neanch’io perché ci penso ancora. E perché senza che possa ascoltarmi, nel mio tedesco, gli parlo, glielo dico, che anche se ci è arrivato caracollando furtivo come qualsiasi cane randagio e ha solo una busta di plastica come dote non è detto che non ci sia niente ad aspettarlo, qui, che debba per forza finire come succede quasi sempre, con lui rispedito indietro entro stasera o inghiottito da un ventre ingordo che gli prenderà l’anima abbagliandolo col miraggio dell’opulenza strillata dalla pubblicità.

E nella mia lingua che lui non può comprendere, mi accorgo di raccontargli questa città che è sempre stata, consapevolmente o no, una frontiera, con le sue volte a stella e la sua pietra lavorata come pizzo che nelle chiese si apre in rosoni per frantumare i raggi del sole.

Di raccontargli tutto quello che mi ha dato, da quando mi hanno sradicato e ripiantato in lei, e di quanto in questi anni ho visto la sua faccia cambiare, rimanendo sempre, sotto il trucco a volte troppo pesante, se stessa. Una frontiera non solo per le genti, ma per il tempo e i luoghi, che vive bifronte tra passato e futuro, con un piede nella terra rossa e uno sul marmo lucido della sua galleria col tetto di vetro. Una città in cui le ragazze che servono ai tavolini all’aperto nelle sere d’estate ti portano insieme alla birra qualche pittula in un piattino di creta. E al centro dei rondò all’imbocco della superstrada che la collega al resto del mondo ci sono ulivi di almeno cento anni , strappati già vecchi dalle campagne intorno,e riattecchiti lì ancora più forti, qualsiasi passato non è facile da cancellare.

Compro le sigarette al distributore automatico mentre aspetto che il mio compagno arrivi per andare a caricare, e ancora parlo col ragazzo che forse è già arrivato e forse no, che forse è già stato preso, e forse è ancora qui, a respirare quest’alba, mentre l’albergo di fronte a me è un colosso a facciata continua dietro al quale posso solo indovinare l’ex convento e il suo chiostro, ma la luce nel terminal dell’aeroporto aperto per i check in dei voli delle sei è molto più fioca delle fotoelettriche ai piedi dei bastioni delle mura che c’erano prima delle tangenziali e della metropoli, e ci saranno dopo, qualsiasi sia il futuro.

E mentre mi accendo un’altra sigaretta e l’odore dei pasticciotti caldi esce dal bar Commercio già aperto, io, che sono un tedesco, uno straniero, come lui, glielo racconto, al ragazzo che cammina e che non può sentirmi e che chissà dov’è, adesso, gli racconto quest’odore, e finalmente glielo dico, è la mia città, questa, glielo dico in dialetto, ieu suntu te qquai, e ho una disperata voglia di chiamarti, anche se so che ti sveglierei, perché solo tu al mondo sai che cosa voglio dire.

sabato 12 aprile 2008

Medi_terra_neo 2008




















Presidio del Libro di Copertino, Fondazione Moschettini, Associazione Casello13


Presentano

Medi_terra_neo 2008

Aprile

Medi_terra_neo - Mercoledì 2 aprile - ore 20,30
Il funambolo sull´erba blu - di Maria Pia Romano - Besa ed.
presenta Antonio Errico
al violino il maestro Francesco Del Prete
B&B Chiesa Greca al "Il Giardino del Prete"
Piazzetta Chiesa Greca, 11 - Lecce

Medi_terra_neo -Venerdì 25 aprile - ore 20,30
Il denso delle cose - di Vera Lùcia De Oliveira - Besa ed.
presenta Stefano Donno
video installazione di Marta Ampolo
Ex Palazzo Colonna - Via Ruggeri- Copertino (Le)

Medi_terra_neo - Mercoledì 30 aprile - ore 20,30
I racconti del ripostiglio - di Claudio Martini - Besa ed.
presentano:Stefano Donno e Francesco Tarantino
in mostra "Scatole" di Andrea Laudisa
B&B Chiesa Greca al "Il Giardino del Prete"
Piazzetta Chiesa Greca, 11 - Lecce



Maggio

Medi_terra_neo - Giovedì 15 maggio - ore 20,30

Mai più scema di Elisa Albano - Lupo ed.

Antonia Pozzi letta da Ambra Biscuso

presenta Francesco Tarantino

video proiezione 'Intimate Portrait' di Eva Caridi

Ex Palazzo Colonna - Via Ruggeri- Copertino (Le)



Medi_terra_neo - Sabato 17 maggio - ore 20,30

Ieratico poietico di Stefano Donno - Besa ed

presenta Antonio Errico partecipa Luciano Pagano

video installazione di Andrea Laudisa

Ex Palazzo Colonna - Via Ruggeri- Copertino (Le)



Medi_terra_neo - Sabato 24 maggio - ore 20,30

1996- 2007 : Antonio Errico

performance: L´ultima favoleria degli Angeli ribelli

in mostra Gix

B&B Chiesa Greca al "Il Giardino del Prete"

Piazzetta Chiesa Greca, 11 - Lecce