domenica 20 aprile 2008

Marco Bonerba e L'odore della Fiera

Poggiavo il mento sul manico della scopa, che stringevo forte nelle mie mani, fissando un gabbiano che armeggiava tra le sue piume. Era appollaiato su una ringhiera malmessa del lungomare, all'ombra di uno dei caratteristici lampioni a tre bracci, e nonostante la gente, passando, lo sfiorasse, continuava placidamente a rovistare tra le sue ali. Di tanto in tanto interrompeva bruscamente, si guardava attorno e poi, sembrando compiaciuto che il mondo non avesse subito alcuno stravolgimento, ricominciava con vigore il suo lavoro. Ripresi a spazzare. Anche quel giorno la rotonda portava le tracce della sera prima, dove, sotto lo sguardo distaccato del Circolo della vela illuminato d'arancione, la meglio gioventù splendeva di gioia, speranza e spensieratezza dando una voce allegra alla città che così sembrava sgranchirsi dopo il freddo invernale pronta a mettersi in canottiera e con una sigaretta tra le dita a guardare giù dal balcone. Una tipica sera che con cinque euro, da una di quelle bianche e fumanti scatole di scarpe che odorano un po' di Fiera del Levante, puoi comprarti un panino e una birra, abbracciare la tua ragazza e guardare la luce del faro immaginando con lei un futuro meraviglioso che forse ti attende, o forse no.

«Se ti do un euro in più me li metti i pomodori sott'olio, i crauti e le patatine fritte?».

Erano i primi di maggio, l’aria fresca della primavera mi aveva dato il benvenuto appena fuori casa qualche ora prima e mi tenne compagnia per tutta la mattinata, sussurrandomi nelle orecchie quando si alzava il vento. Avevo quasi terminato il mio turno e anche quella volta era stata dura: bottiglie, cartacce, buste. Il mio compito era cancellarle, insieme alle loro storie: le lacrime della ragazza sul fazzolettino, le risate degli amici con le lattine in mano, il sollievo del signore che fumava la sua sigaretta dopo un’interminabile fila alla posta.

Un fruscìo di scopa e via. Via ad altre emozioni.

Mi asciugai un po' di sudore dalla fronte con il braccio e trascinai per qualche metro ancora il mio carro blu accettando la provocazione di quella lattina che con il suo rosso fuoco sfidava il grigio del marciapiede. Finì anche lei nel mio bidone di plastica nera, insieme a una vecchia sciarpa biancorossa di una squadra di calcio che “noncivadopiùallostadiosenoncambiailpresidente”. Sfrecciò un motorino zigzagando tra le macchine e l'autista di un furgone rosso e blu in apnea in un abitacolo sommerso da corni e ferri di cavallo, frenando, invocò San Nicola.
Erano le 12, fine del mio turno, e alzando lo sguardo vidi la mia donna. Mi osservava, disse, da un po’. «Stasera andiamo al cinema, che ne dici?». Risposi con un sorriso e un cenno affermativo del capo e lei, incurante del mio stato, mi abbracciò con tenerezza.
Il gabbiano saltò giù dalla ringhiera, volò per un po' sfiorando l’acqua con la punta delle ali, e poi puntò verso l'alto. Soddisfatto tornava al suo nido.

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