giovedì 17 aprile 2008

Il Re Vagabondo di Ilaria Ferramosca

Grazie per aver fatto scendere la sera, chiunque Lei sia.
É la Signora di questo luogo, credo. Almeno così mi pare di capire, del resto io non conosco bene la vostra lingua.
Però da quando mi hanno portato qui un po’ di tempo fa, ho imparato molte cose, le ho imparate da solo, ascoltando e osservando.
Passo parte del mio tempo seduto a terra su questa pietra, con fare quasi sempre sonnolento e quando arriva il buio finalmente riesco a trovare un po’ di sollievo dal caldo asfittico di questa cittadina, anche lei seduta, ai piedi della collina ad aspettare un po’ di elemosina da pochi turisti distratti.
Vivo la mia vita misera e randagia di vagabondo, con la fierezza e l’orgoglio tipici della mia natura, con la consapevolezza che l’unica cosa che io possegga al mondo, nessuno me la toglierà. Sono libero, libero di accettare una mano tesa, un po’ d’affetto, un amore stagionale… zingaro ma mai trasandato.
Sa, Signora, Le chiedo scusa se spesso occupo questi gradini, ma la Sua casa è aperta a tutti, dunque anche a me penso, non è così che la gente dice di questi edifici? Anche se io non so pregare come fanno loro e forse non ho bisogno di farlo, perché non ho niente da chiedere in cambio.
Le pietre di questa dimora, porose, del colore della vostra sabbia – l’ho vista girando più di una volta –, mi danno un senso di pacatezza e quando la guardo da qui, seduto, mi sembra che quella torre accanto, illuminata all’interno, sia veramente gigantesca e rassicurante.
Ogni tanto sbircio nel Suo palazzo, che ha vetri colorati, e alcune finestre in alto hanno la forma di un fiore. Dentro c’è fresca penombra, sedili di legno e tantissimo spazio.
Vien fuori un odore… così soavemente delicato, un po’annacquato per me che sono abituato agli olezzi acri e pungenti della strada, delle persone, dell’asfalto calpestato da mille e mille suole.
La guardo là in fondo, con in braccio il Suo bambino e mi ricordo che qualche volta, chissà quanto tempo fa, qualcuno ha tenuto in braccio anche me, ma non provo tristezza né nostalgia.
Fra non molto qui sarà pieno di luci sfarzose, che incorniciano le strade anguste e le accendono come fosse giorno, mi sembra di capire che si tenga una nuova festa, una festa in Suo onore, Signora.
Lo ricordo già da un’altra volta. La prenderanno in spalle e La faranno uscire da quel Suo palazzo, bella e adorna di fiori che sanno di maggio e si mescolano al profumo di queste siepi antistanti. E improvvisamente queste viuzze si riempiranno anche di suoni assordanti e boati che un po’ mi spaventano. Ma io resto qui, mi nascondo lateralmente, vicino a quel leone di pietra che mi riporta alle mie origini.
Sì, resto qui perché l’aria s’inonderà anche di profumi di dolci zuccherini e di salsicce arrostite, ed io spero che qualcuno mi regali qualcosa da mettere in questo stomaco vuoto.
Quindi mi fermerò seduto giù, in basso, ad osservare gambe e bambini che passano piangendo, con lo sguardo appeso a palloni colorati appena sfuggiti dalle loro mani e volati lontano… lontano chissà dove, lasciando un senso di tristezza e di ignoto. Verso quale luogo andranno mai? E se ci salissi sopra, potrei tornare da dove sono venuto?
Intanto si popola, questo piazzale. La gente si accalca sui gradini aspettando che Lei esca.
Mi è sembrato di capire che vive qui da molti, moltissimi anni e che un tempo Le piaceva sostare nei campi coltivati. Le hanno costruito questa casa proprio qua, perché la campagna è più vicina e quando quella gente tentava di portarLa dentro qualche palazzo come questo, nel paese, Lei scappava per tornare sempre nello stesso posto. Mi piace la Sua storia, anche Lei ama la libertà e la natura? Del resto, è la Signora dell’agricoltura ho sentito dire.
E ora? Sta per uscire lo so, così mi sposto a fatica da questi scalini, tanto nessuno si accorge di me in questo momento, né mi importa ormai che lo facciano. Sono estraneo a questa folla, sono straniero e di un’altra razza, eppure questo luogo è più mio di chi ci abita.
Posso dormire sull’erba del parco sotto le stelle pulsanti, tutte le volte che voglio, non come voi che abitate questa cittadina, segregati nelle vostre case. Salutare l’ultimo lampione che si spegne, sentirmi il padrone di tutte le piazze, osservare i ragazzi che vanno, vengono, si stipano in questo parcheggio, ridendo rumorosamente e cercandosi con gli sguardi per trovare in altri occhi qualche mondo simile al loro.
Voi non lo sapete, ma spesso la notte mi arrampico sui palazzi antichi e conosco i segreti delle vecchie pietre e vedo dettagli che voi ormai, distratti, non vedete più. Stemmi vetusti, volute, archi, decorazioni di colonnine nascoste e balconi. Entro nei giardini, salgo sui vostri alberi, poi torno fuori a guardare le strade deserte.
Vedo i fantasmi dei vostri antenati, aggirarsi tra i ruderi di antichi conventi, lasciati marcire fra le unghie del tempo, che strappa via via frammenti di pietra e calce bianca.
Sento vibrare le vostre emozioni, di cui vi disfate per impazienza, perché non avete il tempo di prestar loro attenzione. Tristezze inascoltate, amori abbandonati e mai nati perché troppo difficili da coltivare con la calma di un giardiniere, gioie consumate in fretta e non vissute fino in fondo, come merendine morse, appena assaporate e poi gettate via da mani troppo sazie.
Annuso nell’aria i vostri desideri e vedo materializzarsi i vostri sogni di gente ambiziosa e fin troppo pragmatica. Vi agitate e annaspate come naufraghi in un mare di futilità, aggrappati ad oggetti che stringete come se dovessero salvarvi la vita. Involucri, solo involucri: scatole di tufo, scatole di acciaio, scatole piene di fili e luci…
E quando arriva l’alba io torno sui gradini a dormire, mendicante di giorno, eroe di notte, mentre intorno la cittadina si sveglia e si muove tra le nebbie di maggio e mi vortica intorno aggiungendo un senso di stordimento più forte, al torpore della mia stanchezza di avventuriero del buio.
Intanto voi correte al lavoro frenetici come sempre, a cercare di guadagnare un po’ di quel denaro che a me non serve, né mai mi servirà per essere re.
Si mia Signora, mi perdoni se dico questo, se dico che io sono il re di questa piccola città di provincia, che cerca di sentirsi grande ed evoluta riempiendosi di nuovo cemento.
Una piccola città che si è data come nome Para-abíta, Abitare vicino, forse con l’ironica pretesa di essere al centro di tutto, tanto da poter arrivare con un solo passo in qualsiasi altro posto.
Certo, lo so che Lei qui è la Patrona, ma io sono senz’altro il sovrano, perché è nella mia natura osservare con fare regale tutto ciò che mi scorre davanti.
Così, anche in questo luogo al sud d’Italia come in tutte le città del mondo, il vero re sono sempre io… un gatto!
fonte iconografica www.templarioggi.it

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