lunedì 14 aprile 2008

Il cyberfemminismo secondo Cinzia Greco















Cos’è il cyberfemminismo? Beh, cominciamo a dire cosa non è: non è una moda, non è un’ideologia, non è uno dei soliti -ismi, non è contro l’uomo, e, fatto rilevante, non è una struttura.

Questa è una libera traduzione di alcune delle 100 anti-tesi tratte dall’elenco che nel 1997 è stato stilato dalle partecipanti al First Cyberfeminist International, tenutosi a Kassel, in Germania. All’evento hanno partecipato numerose artiste, scrittrici, studiose che si sono riunite per discutere del rapporto tra le donne e le nuove tecnologie, in particolare Internet e per elaborare nuovi progetti femministi di networking nei diversi stati.
In concomitanza all’evento venne fondato a Berlino il sito Old Boys Network col compito di raccogliere e diffondere numerosi lavori legati al Cyberfemminismo.
Contraddittorie e ironiche, le 100 anti-tesi, lungi dal definire il complesso fenomeno che lega tematiche storiche del femminismo a questioni proposte dallo sviluppo delle nuove tecnologie, mescolano le idee e sanciscono l’impossibilità di racchiudere in una definizione un movimento fluido e instabile.

Proviamo però a capire perché fluido e instabile: un po’ di storia.

Il termine cyberfemminismo è un neologismo composto da femminismo – termine riferito a dei processi politici e sociali legati all’emancipazione delle donne e alla lotta per la parità giuridica e politica –, e cyber. Questo prefisso deriva dal greco “kybernàn” che significa “pilotare” e comparve per la prima volta nel 1947, quando lo scienziato Norbert Wiener adoperò il termine cybernetics per indicare la scienza delle macchine in grado di autoregolarsi. Il prolifico prefisso ha dato origine a numerosi termini, tra cui cyberspace, elemento presente nei romanzi di fantascienza e che fuori dalle pagine dei libri indica l’ambiente virtuale che mette in comunicazione i computer di tutto il mondo permettendo agli utenti di interagire tra loro. Il cyberspace è il luogo d’azione del cyberfemminismo, poiché esso, come afferma Rosi Braidotti, una delle principali studiose italiane che ha analizzato il fenomeno, «cerca di utilizzare le nuove tecnologie a favore delle donne».

Una delle prime studiose a occuparsi del rapporto tra il pensiero, le attività femminili e le nuove tecnologie è stata Donna Haraway che scrisse nel 1991 il Manifesto Cyborg (edito in Italia nel 1994 dalla Feltrinelli, a cura di Rosi Braidotti). L’analisi della Haraway si articola in tre momenti:

- sulle prime traccia una descrizione della situazione socio-politica degli ultimi anni ’80, all’interno della quale si inserisce la riflessione sull’impatto delle innovazioni nelle telecomunicazioni e nella micro-elettronica. Inoltre mette attentamente in luce le contraddizioni del “villaggio globale” e sottolinea il rischio che
«si formi una struttura sociale fortemente bimodale, in cui le masse di donne e uomini di tutti i gruppi etnici, ma soprattutto di colore, vengano confinate [...] nell’analfabetismo di vario tipo, nell’impotenza e nel generale esubero, controllate da apparati repressivi alto-tecnologici che vanno dall’intrattenimento alla sorveglianza e alla sparizione [...]»;

- a questi aspetti si lega la necessità di (ri)formulare nelle teorie femministe un nuovo legame tra le donne e la scienza, al fine di favorire in esse lo sviluppo di una coscienza critica verso la tecnologia;

- nell’ultima parte del Manifesto si propone una mediazione tra la presunta assoluta oggettività del punto di vista della scienza e l’assoluta mancanza di oggettività di una visione relativistica dei fatti e delle cose. Questa mediazione si attua attraverso l’introduzione dei saperi situati, ossia l’adozione di un punto di vista parziale e stabile collocato nel basso della realtà corporea. Ma quella che il cyberfemminismo propone è una corporalità virtuale, ossia sospesa tra il corporeo e il fattore tecnologico.

Proprio questo ultimo aspetto del pensiero di Haraway costituisce uno dei temi fondamentali delle più recenti riflessione del cyberfemmismo. Le nuove tecnologie, in particolare Internet, modificano la rappresentazione che le donne danno di sé? E in che modo il Web può contribuire a veicolare una immagine della donna affrancata dai vecchi stereotipi?
Il cyberspace può essere considerato una versione riveduta e corretta di Utopia, un (non)luogo dove il sesso, l’età, la condizione sociale si dissolvono e possono essere ricreati ad hoc, le discriminazioni scompaiono e tocca agli attribuitori virtuali di identità, gli “avatar”, dire chi siamo.

Ma è davvero così? Pare di no, e non manca chi sottolinea che spesso l’anonimato e la virtualità non sono di per sé sufficienti ad abbattere le barriere comunicative. Faith Wilding, artista multidisciplinare le cui opere più recenti si incentrano sulle tematiche del cyberfemminismo, nel suo saggio, Where is Feminism in Cyberfeminism? afferma che


«a politically smart and affirmative cyberfemminism, using wisdom learned from past struggles, can model a brash disruptive politics aimed at decostructing the patriarchal conditions that currently produce the codes, languages, images, and structures on the Net».

Affinché il computer e la rete siano strumenti per risollevare le donne da un ruolo subalterno è necessario che esse assumano una posizione più attiva nella creazione, gestione e diffusione dei nuovi prodotti tecnologici

«Un movimento cyberfemminista brillante e propositivo dal punto di vista politico, che si avvale della saggezza acquisita nelle precedenti battaglie, può produrre politiche sfrontate e disgreganti che puntano a decostruire le condizioni patriarcali che attualmente producono i codici, i linguaggi, le immagini e le strutture nella rete» (traduzione Cinzia Greco).

Affinché il computer e la rete siano strumenti per risollevare le donne da un ruolo subalterno è necessario che esse assumano una posizione più attiva nella creazione, gestione e diffusione dei nuovi prodotti tecnologici, senza subire il Net come uno strumento creato dall’uomo per scopi prettamente maschili e da cui tenersi alla larga.

Infatti, ancora oggi nell’immaginario collettivo è ampiamente diffusa l’idea che le donne siano naturalmente tecnofobe: si ritiene che esse si accostino a un pc solo per necessità e che non siano per nulla interessate a seguire i progressi tecnologici. In realtà basta leggere alcuni articoli presenti nel sito del Mit (Ministero per l’Innovazione e le tecnologie) per scoprire che il numero delle donne in rete negli ultimi anni è notevolmente aumentato e che il pc, grazie alla diffusione di Internet, non è solo uno strumento di lavoro o un aiuto nella gestione familiare, ma costituisce uno svago e sempre più spesso diviene un mezzo per socializzare.

Le esponenti del cyberfemminismo sono state tra le prime a riconoscere le potenzialità di questi strumenti, ma anche il pericolo in essi nascosto. Sin dall’inizio il loro obbiettivo è stato quello di avvicinare le donne alle nuove tecnologie, affinché facessero proprie le conoscenze indispensabili per entrare nella realtà virtuale non solo in qualità di spettatrici ma come soggetti attivi in grado di creare nuove informazioni da diffondere nella rete e conseguentemente nel mondo. Il web deve inoltre essere considerato come un mezzo, potente sì, ma non il solo, e mai il fine utimo di una lotta: non si può realizzare una liberazione femminil/femminista del e nel cyberspace, che non influenzi anche il mondo esterno e tangibile.

fonte iconografica www.lastampa.it

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