martedì 13 maggio 2008

Carlo Goldoni e La trilogia della villeggiatura di Anna Durini

Carlo Goldoni ha conosciuto, nell’arco di quasi tre secoli, alterna fortuna di critica, solo di recente in grado di cogliere pienamente la portata innovativa del linguaggio e dell’opera dello scrittore veneziano – per tutto il ’900 poco benevola sia con l’estetica che con l’ideologia goldoniana, forte ancora l’influenza di Croce e De Sanctis.
Il successo fra il pubblico, però, si può considerare pressoché ininterrotto, dalle rappresentazioni allestite dallo stesso Goldoni a quelle odierne, grazie alla sensibilità di artisti che ne mettono in luce la straordinaria attualità, cogliendo nuove sfumature nei contenuti, svolgendo le pieghe dell’anima dei personaggi e mettendo in scena il suo “illuminismo popolare”, che, lungi dal rimuovere le gerarchie sociali, fa luce sul senso di opportunità e adeguatezza alla classe di appartenenza che dovrebbe guidare ciascuno – nobile, borghese, popolano – nelle scelte di vita e nei comportamenti.

Un intellettuale, insomma – ma preferiamo: “artista” – che non celebra i costumi dell’oligarchia al potere e che, pur non scagliandosi contro la stessa in maniera definitiva e netta, ne mette in luce i difetti senza indulgenza, né simpatia. Goldoni reinterpreta la
Commedia dell’arte, svincolandosi dalla banalità e dalla convenzionalità della stessa e contrapponendole un richiamo alla natura e alla realtà quotidiana e, pur allontanandosi con gli anni dalla sua stessa riforma, fa sempre appello al comico, rimarcandone la vivacità intellettuale e le possibilità espressive.
L’idea di un Goldoni tutto cicibeismi e finali lieti e compiaciuti svanisce di fronte all’ultima rappresentazione della
Trilogia della villeggiatura, in tour per l’Italia fino allo scorso 13 aprile, nell’adattamento di Toni Servillo, che ne è anche regista e interprete.

Le smanie, Le avventure e Il ritorno, i tre momenti dell’opera scenica goldoniana, sono qui accorpati in un‘unica rappresentazione, nella quale Servillo, pur muovendo da Strehler, si allontana presto da linee interpretative già seguite per intraprendere, partendo dalla divisione dello spettacolo in due parti e da una propria stesura, un percorso originale e impegnativo, non solo per la durata dello spettacolo – tre ore vissute dallo spettatore in un soffio, grazie ai sapienti cambi di intensità nel ritmo – ma anche, “simmetricamente”, per la sottile “declinazione emotiva” dei personaggi – come rilevato dallo stesso regista, che ci regala un’altra grande prova teatrale con la firma del suo stile straordinario.

L’azione si svolge fra “negozio” e “villa”, fra “ufficio” – la realtà della città, del lavoro, dell’economia e, non ultima, della lotta fra classi sociali – e “vacanza” – intesa proprio come “vacuum”, come “sospensione” dalla realtà – in cui l’effetto ottundente della bambagia che avvolge i protagonisti si manifesta in modo esiziale.
Un impianto di straordinaria complessità.
Ne Le smanie vengono rappresentati i febbrili preparativi della villeggiatura, fra puerili titubanze e imperativi categorici pronunciati dalla moda.
Le avventure scorrono a un ritmo diverso; la “vacanza” dal quotidiano cittadino, fra scoperta dell’eros e frivolezza, rallenta languidamente il flusso temporale, che, pur mantenendosi vivace, si immelanconisce mentre la necessità di lasciare la villa riporta bruscamente i protagonisti alla realtà.
Il Ritorno vede i personaggi di colpo invecchiati senza essere cresciuti, costretti a fare i conti con le difficoltà finanziarie, sull’onda lunga della “dis-inlusio”, del tutto impreparati e inadeguati a operare le importanti scelte di fronte alle quali la vita li catapulta, in specie quelle del cuore, dopo una “éducation sentimentale” disastrosa.

«Credo che nel Ritorno certi fatti e ragionamenti si compiono, se è vero che a decidere sono la mancanza di liquidità e i patteggiamenti del mondo maschile legato alle contraddizioni, di cui il mondo femminile è vittima» afferma Toni Servillo, che non manca di ricordare la presenza di una ricchissima galleria di donne dalla forte personalità nel teatro di Goldoni e nella sua Enciclopedia del femminile.
«Adoro lavorare con le attrici e sento che coltivare questa frequentazione […] è qualcosa di profondamente necessario al teatro. […] Il personaggio di Giacinta, protagonista della Trilogia, è davvero straordinario per complessità e sfumature, [...]. È il personaggio con più risorse, angoli, cassetti chiusi in questo armadio che è il suo cuore».
Per il regista, dunque, Giacinta non è la “Femme sauvante” stimmatizzata “anche” da Goldoni per gli atteggiamenti di eccessiva autonomia e per il piglio dispotico, né un personaggio «patetico» (Michele Bordin); piuttosto incarna “l’intellettuale” – perché in grado di pensare la propria vita.
Non priva di un certo potere – nei Mémoires l’Autore scrive: «Giacinta fait taire tout le monde», sottolineando che il gioco della comunicazione è nelle sue mani – ella finisce con l’abdicare la propria personalità a una scelta (sposare l’uomo che non ama) che, più che imposta dal decoro, è frutto di un “azzeramento” feroce, penosissimo, operato da ella stessa in quel suo continuo rivolgersi al pubblico – alla vita, attendendo risposte che non vengono – nell’ingenua pretesa che il suo “far fare a tutti quel che vuole” non le si ritorca contro. Giacinta è insieme vittima e carnefice. E il suo personaggio diventa l’ipostasi dell’occasione perduta, dell’inane rimpianto, dell’attesa che qualcosa cominci e dell’inconsapevolezza che “tutto comincia con l’essere già cominciato”.
«Giacinta per me ha una valenza addirittura amletica» sottolinea Toni Servillo; «[…] Subisce un mondo, ma consapevole di farne parte e di non fare nulla per cambiarlo. Per cui nel tempo, inacidendosi in quel matrimonio triste, ne assumerà i valori cui sembra contrapporsi».

In scena il regista indossa la “maschera nera” di Ferdinando, lo “Scrocco”, scelleratamente irresistibile, “dia/bolicamente divertente”, adorato e temuto dai “parvenu” che ne apprezzano il brio ma non sottovalutano i suoi strali venefici. Non c’è gaiezza spontanea nel personaggio di Ferdinando; sono sue invece una lucidità sicura e consapevole e un’abilità comunicativa che la sua assoluta fatuità destina alla realizzazione di un matrimonio d’interesse con la vecchia pazza, attempata vedova in vena di ardori adolescenziali, in una sorta di “logica contabile” (non a caso in vacanza Ferdinando stila il bilancio delle vincite al giuoco delle carte), freddamente volta al raggiungimento del suo obiettivo: l’acquisto di una botteguccia.
Toni Servillo individua in lui l’osservatore dei sistemi – sociale, economico, culturale; le sue incursioni – in scena, nella vita dei personaggi – punteggiano il discorso sul “vacuum”. Lo spettatore viene avvinto alla vicenda dalla sua impudenza e dal suo essere privo di tutto, fuorché del talento di “sapersi trovare dove conviene, con chi occorre”.


Toni Servillo si affranca dalla passata retorica della finzione – in cui tutti dicono quello che non pensano, fanno quello che non vogliono, appaiono quello che non sono – facendo interloquire il testo con lo spettatore nella definizione di significato, non solo coinvolgendolo e “chiamandolo” in scena, ma facendogli attuare proiezioni di sé forse imbarazzanti, rendendogli possibile visualizzarsi e vedere il proprio “Life is now” sul palcoscenico, facendolo assistere alla rappresentazione dello sfrenato presenzialismo, del miope “lavoro di facciata” e della dannazione del presente impossibile da godere.
Un ineludibile invito a rimettersi in discussione.

NOTA Le citazioni di Toni Servillo sono estratte da Conversazione con Toni Servillo, per gentile concessione di Edizioni Il Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, testi riportati nell’Approfondimento dello spettacolo da Maria Grazia Soavi, Ufficio stampa del Teatro Comunale di Ferrara.


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